image

Il libro

Alto Adige, Val Passiria, maggio 1943. Dopo tre anni e mezzo di guerra, tornato in licenza dal fronte russo ferito e decorato, un giovane servo agricolo si dà alla macchia e il suo esempio contagia altri coetanei. Catturato a tradimento, condannato a morte e poi mandato sul fronte ungherese in una compagnia di punizione, diserta di nuovo e grazie a una rocambolesca fuga riesce a tornare nella sua valle. Spauracchio dei nazisti locali, assume il ruolo di “vendicatore” seguendo un suo personale senso di giustizia. Fino alla fine della sua breve vita non deporrà più la mitragliatrice.

L’autore

Carlo Romeo (nato a Bolzano nel 1962) è autore di numerosi studi di storia regionale moderna e contemporanea. Ha curato progetti didattici e divulgativi tra cui manuali scolastici, mostre storiche, film documentari e, in ambito letterario, edizioni critiche e traduzioni.

La prima edizione del romanzo storico Sulle tracce di Karl Gufler il bandito è uscita nel 1993 presso Edition Raetia ed è stata tradotta in lingua tedesca da Martha Verdorfer e Dominikus Andergassen nel 2005 (Flucht ohne Ausweg. Auf den Spuren des Banditen Karl Gufler). Altri libri dell’autore pubblicati da Edition Raetia: Alto Adige/Südtirol XX secolo: cent’anni e più in parole e immagini (2003), Dalla liberazione alla ricostruzione: Alto Adige/Südtirol 1945-1948 (insieme a G. Mezzalira, F. Miori e G. Perez, 2013).

www.carloromeo.it

Carlo Romeo

Partisan

Sulle tracce di Karl Gufler il bandito

con una postfazione di Leopold Steurer

image

© Edition Raetia, Bolzano 2017

Concetto grafico: Dall’O & Friends

ISBN 978-88-7283-616-3

È possibile consultare il catalogo generale di Edition Raetia su www.raetia.com

E pare di sentire ancora dal sottoterra della

Val Passiria un’ironica sghignazzata: è quella di

Carlo Gufler, il bandito, l’anima nera della valle.xs

(Procuratore della Repubblica di Bolzano, 1952)

Contenuto

Prologo

Capitolo I

Capitolo II

Capitolo III

Capitolo IV

Capitolo V

Capitolo VI

Capitolo VII

Capitolo VIII

Capitolo IX

Capitolo X

Capitolo XI

Capitolo XII

Capitolo XIII

Capitolo XIV

Capitolo XV

Capitolo XVI

Capitolo XVII

Capitolo XVIII

Capitolo XIX

Capitolo XX

Capitolo XXI

Capitolo XXII

Capitolo XXIII

Capitolo XXIV

Capitolo XXV

Capitolo XXVI

Capitolo XXVII

Capitolo XXVIII

Capitolo XXIX

Capitolo XXX

Capitolo XXXI

Capitolo XXXII

Capitolo XXXIII

Capitolo XXXIV

Capitolo XXXV

Capitolo XXXVI

Capitolo XXXVII

Capitolo XXXVIII

Capitolo XXXIX

Capitolo XL

Capitolo XLI

Capitolo XLII

Capitolo XLIII

Capitolo XLIV

Capitolo XLV

Appendice

Citazioni

I processi a carico della “banda Gufler”

Acronimi usati nel testo

Alcuni termini ed espressioni

Ringraziamenti

Disertori, guerra e resistenza di Leopold Steurer

Prologo

La sera del venti marzo 1947, verso le diciotto e trenta, una camionetta dei carabinieri proveniente da Merano transitava sulla strada della Val Passiria verso il paese di San Martino. Insieme a tre militi vi era il nuovo comandante della Compagnia meranese, che veniva per la prima volta in perlustrazione in quella zona. Al dodicesimo chilometro, come da accordi, si sarebbero fermati ad attendere un’altra pattuglia che doveva arrivare in senso opposto. L’auto era già quasi ferma a qualche passo dalla pietra miliare, quando dalla macchia sulla destra partirono raffiche di mitragliatrice. In pochi secondi una ventina di proiettili colpirono il veicolo.

I carabinieri riuscirono fortunosamente a scendere illesi e a ripararsi dietro l’automobile, rispondendo a loro volta al fuoco. La sparatoria, al buio, esaurì le munizioni di entrambe le parti.

A questo punto, secondo quanto riportato dalle cronache, ebbe inizio una non meglio chiarita “trattativa”, alla fine della quale l’ultimo proiettile rimasto in canna a un carabiniere colpì uno dei due assalitori alla nuca, mentre si ritirava senza rispondere all’ordine di consegnarsi. Il proiettile trapassò il cranio fuoriuscendo dall’occhio destro. L’altro, datosi alla fuga, venne facilmente arrestato in seguito.

Il giorno dopo la cronaca locale dedicò qualche riga all’episodio, soprattutto in merito al deceduto: Karl Gufler, ventisette anni, di San Martino, bandito noto e temuto in tutta la valle. La popolazione, si riferiva, tirava un sospiro di sollievo alla notizia della sua scomparsa. Di certo il giovane steso a terra, con la mitragliatrice da guerra tedesca stretta ancora nella mano, “bandito” lo era stato da sempre.

Karl Gufler? Eh, di Gufler qui a San Martino ce ne sono a migliaia. Disperazione dei postini… Ah, il Meiler Karl! Veniva chiamato così dal maso dov’era cresciuto […].

[…] Gufler il bandito? Certo che so chi era! Anche se sono passati tanti anni, qui in Passiria chi ha una certa età come fa a non ricordare il Gufler, lui e la sua banda di assassini […].

[…] Ne ha passate tante il Gufler; non era cattivo, no, lo hanno fatto diventare cattivo. Lui ce l’aveva coi nazisti e rubava a loro, solo a loro […].

[…] Mia madre doveva saperne di più, peccato sia morta. Aveva subito dei furti da parte del Meiler Karl. Mi ricordo una volta, ero piccolo, mia madre era alla finestra, all’improvviso si è ritratta spaventata e ci ha fatto segno di stare fermi e zitti. “Passa il Meiler Karl”, ci ha detto con voce tremante […].

[…] Aveva un’esclamazione personale: “Schlarg an Aug ausser!”. Tutti la ricordano, ma nessuno me l’ha saputa spiegare. Ho chiesto in giro, ma forse non aveva un vero senso, era un gioco di suoni. […] Era proprio un bel tipo. Anche nei momenti più drammatici, quando sembrava spacciato, scherzava sempre. Sì, era anche un po’ incosciente. […] Suo fratello, Alfons, suonava bene il violino. Alle feste veniva sempre chiamato. Riusciva a guadagnarsi così il pane. Poi è andato via, credo in Germania. Anche Karl era appassionato di musica. E ballava come un forsennato fino allalba. Faceva delle feste in casa di suo cugino che si lamentava di avere la casa sempre piena. Era persino riuscito a rimediare un grammofono dopo la guerra… Chissà dove l’aveva preso… Il parroco, che lo conosceva bene, gli diceva: “Invece di pregare durante la Quaresima perdi tempo in questo modo!”.

Le notizie sull’infanzia di Karl Gufler sono più confuse, o forse confusa fu la sua stessa infanzia. Orfano della madre in tenerissima età, visse fino a sei anni col padre, alcolizzato, che riuscì a dissipare in breve tempo la proprietà di un’osteria. Andò quindi a vivere con lo zio, dal cui maso ebbe il soprannome. Poi, come la maggioranza dei coetanei nella sua condizione, trascorse il resto dell’infanzia e l’adolescenza come Knecht, servo agricolo, passando di stagione in stagione presso masi e famiglie diverse. Nel 1939 Karl Gufler aveva vent’anni. Essendo in età di leva poteva optare per la Germania o l’Italia.

Si arruolò volontario nella Wehrmacht. Perché tutti gli dicevano che era il migliore a sparare e lui aveva la passione delle armi. E in ogni caso non aveva niente da perdere, non si lasciava alle spalle proprio nulla di caro. […]

Partì subito, all’inizio del 1940. Per tre anni del Meiler Karl non si seppe più nulla. Poi, nella primavera del 1943, tornò in licenza a San Martino e si seppe che era stato in Norvegia, Francia e Russia; era stato ferito e decorato. Il due maggio gli sarebbe scaduta la licenza: ma non si ripresentò più.

I

Se l’era visto arrivare, un giorno, con quei pantaloni addosso che sembravano proprio quelli di una divisa tedesca e un sorriso scanzonato e quasi irritante stampato sul viso, a chiedere lavoro. Era il momento di fare il fieno e un paio di braccia in più non avrebbero fatto male. Tuttavia il vecchio Gögele aveva capito subito che qualcosa non andava in quel giovane.

Hansjörg, aveva detto di chiamarsi così, ma dopo averci pensato un po’ su e con un’aria quasi divertita. E quando lo chiamava da lontano con quel nome, non si girava mai. Sul lavoro niente da dire; era capace di tirare anche cinque o sei ore senza una pausa. E poi era entrato subito nelle simpatie di tutti i compagni di lavoro per il suo umore sempre allegro, per gli scherzi e le battute che animavano le sere nel fienile, accomodato a dormitorio. Finché una sera il figlio di Gögele, tornato da una commissione svolta a San Martino, riferì al padre che i tedeschi stavano cercando un certo Karl Gufler, che aveva disertato. Era un decorato e in Russia era stato ferito a un piede e camminava in modo strano. Proprio come Hansjörg.

L’oscurità di quella sera puntellata di stelle era tagliata dalla striscia di luce che proveniva dall’uscio semiaperto del fienile. Quante volte Gögele aveva ripetuto ai braccianti di stare attenti al lume, che bastava un attimo di distrazione per combinare un disastro. A giudicare dalle voci e dagli schiamazzi che provenivano dall’interno dovevano essere alticci. Su tutte le voci dominava quella del nuovo arrivato, che Gögele riconobbe subito, avvicinandosi al fienile. Rimase un istante fermo sull’uscio ad ascoltare.

– Il pezzo di terra più importante della valle è quello dove nasce il Passirio… Uno ci si può mettere a cavalcioni e chiedere un po’ di soldi ogni giorno, a turno, a ogni paese della valle.

– Perché dovrebbero darglieli?

– Altrimenti ci piscerebbe dentro!

– Nel tuo caso uscirebbe solo del vino.

Seguirono altre risate. L’uscio si aprì zittendo tutti.

– Tu, Hansjörg, o Karl… ti devo parlare, vieni fuori!

Karl rimase immobile, a bocca aperta, con la bottiglia stretta nella mano.

– Chi c’è fuori? – disse poi brandendola e guardandosi attorno circospetto.

– Non c’è nessuno, voglio solo fare due chiacchiere per vederci meglio in questa storia. Vieni fuori, ti dico!

Un quarto d’ora dopo Karl rientrò da solo nel fienile. Disse che si fidava di tutti loro. I tedeschi lo stavano cercando, ma non aveva fatto nulla di male. Era stato in Russia e gli avevano sparato a un piede: per questo qualche volta zoppicava, non era vero della tagliola. E ora non voleva più tornare, perché ne aveva avuto abbastanza. Dopo un primo momento di imbarazzato silenzio cominciarono a fioccare le domande. Erano quasi tutti più giovani di lui e sapevano di essere sulla lista dei futuri partenti. Della Russia sapevano solo quello che veniva detto da chi non c’era stato e le lettere dei fratelli maggiori o dei conoscenti già al fronte non dicevano praticamente nulla. Quella notte si dormì poco e si parlò molto nel fienile. Del freddo che c’era lassù, delle Katiusce, di come un’intera armata era stata persa a Stalingrado. E degli irregolari russi, che di notte arrivavano fin oltre le linee, quando meno te lo aspettavi. Colpivano in silenzio, poi sparivano mimetizzandosi nella neve, senza lasciare tracce. E la popolazione li aiutava, non si capiva dove si nascondessero. Ed erano chiamati partigiani.

II

Ben presto Karl si decise ad andar via dal maso di Gögele. Due uomini dell’ADO di San Martino erano passati un giorno fin lassù. Probabilmente non erano venuti lì per lui. Avevano parlato col padrone, seduti fuori della casa, davanti a una bottiglia di vino. Karl li aveva osservati da lontano, con crescente inquietudine. Pensò che sarebbe bastato un cenno da parte di Gögele o di qualcuno dei compagni per farlo prendere. Capì che sarebbe stato insopportabile continuare a starsene lì, in quell’incertezza, col dubbio continuo di essere tradito. Quella sera non tornò al maso. Fece sapere a Gögele che lo ringraziava di tutto e che poteva fargli avere l’ultima paga per mezzo di Anton, con cui sarebbe rimasto in contatto.

Anton era di cinque anni più giovane. In quel mese in cui avevano lavorato insieme, Karl era già diventato per lui un punto di riferimento, quasi un fratello maggiore. Tra poco avrebbe compiuto diciott’anni e i tedeschi avrebbero chiamato anche lui. Suo padre sarebbe rimasto solo con quattro figlie e un ragazzino. I suoi due fratelli più grandi erano entrambi in Russia.

Anton continuò a frequentare Karl, nonostante Gögele glielo avesse sconsigliato. Quando poteva, gli portava qualche vestito e del cibo. Il posto convenuto era una piana sopra Saltusio. Di tanto in tanto l’accompagnava anche la sorella Maria, la più grande delle quattro. Al giorno e all’ora stabilita, giunti al margine della radura, lanciavano un richiamo. Non passavano due o tre minuti che Karl sbucava da chissà dove, silenzioso come un gatto, uscendo dalla macchia con quel suo passo veloce e irregolare.

Anton aveva imparato a sparare con il fucile da guerra di Karl. Andavano spesso a caccia. E Maria per il suo compleanno ricevette una pelle di coniglio che, diceva Karl, doveva tenere sempre con sé: le avrebbe portato fortuna. Le ore che Karl passava in compagnia dei due fratelli rompevano la monotonia di quelle sue lunghe giornate estive, trascorse nei boschi a cacciare e tenersi nascosto. Gli unici con cui scambiava qualche parola erano solitari contadini, un taglialegna che talvolta aiutava, ricevendo in cambio del cibo, e una vecchia donna, dalla mente forse un po’ confusa, che ogni settimana veniva a deporre dei fiori in un posto, nel bosco, dov’era morto il marito tanti anni prima.

Non si arrischiava a scendere più a valle, se non per osservare da lontano, ben nascosto, la vita sempre uguale che vi scorreva. Cominciò a conoscere in breve tempo le più piccole consuetudini di ogni abitante dei dintorni.

Un mattino da un grande maso poco sopra San Leonardo, osservando un gruppo di ragazze che uscivano verso i campi, aveva riconosciuto Luise. Non poteva sbagliarsi, anche se erano passati più di tre anni.

Mai come in quel momento il binocolo russo, rubato in un magazzino ungherese e vinto a carte a un camerata viennese, gli parve il dono di una rocambolesca quanto miracolosa provvidenza.

Sì, non poteva sbagliarsi, era Luise, cambiata in tutto, ma per lui sempre la stessa bambina con cui aveva trascorso giocando gli unici anni spensierati di un’infanzia troppo presto spezzata, quando viveva ancora dallo zio. Di poco più piccola, vicina di maso, con lei aveva messo su casa già a otto anni, sopra un albero altissimo. Ce n’era voluto per costruirla, ma ancor più per insegnarle a salirci. Lì si rifugiavano dopo le battute di caccia, che si svolgevano non nel bosco, ma nella dispensa dello zio di Karl. Quando a dieci anni aveva dovuto andarsene a lavorare presso altre famiglie, sempre più lontano, molte volte era scappato dalle bastonate per ritornare a casa sua, o meglio a quella che credeva casa sua, al Breitnebn. E molte volte era rimasto acquattato a spiare Luise e gli altri bambini che giocavano, sempre ben lontano per non farsi prendere dallo zio. Quasi come faceva ora.

E quando anche lei era stata messa a servizio e si erano persi di vista, incontrandola casualmente a una fiera o a una festa di paese, Karl aveva sempre fatto i salti mortali per riuscire a parlarle da solo. E lei ogni volta era riuscita a eludere la vicinanza di amiche e genitori, che non vedevano di buon occhio quel giovane spiantato e spaccone. Ma per entrambi parlarsi anche per un attimo era come rinnovare tacitamente l’antica complicità. Era come se inconsapevolmente cercassero l’uno nell’altra il segno, la prova di una passata felicità, ormai così lontana che la memoria quasi ne dubitava, come di un sogno spazzato via dall’acqua del mattino.

III

In quei giorni di fine agosto Karl trovò un compagno per i suoi vagabondaggi nei boschi della valle, anche se di poche parole. Proprio mentre addentava un uccello appena arrostito su un piccolo fuoco, se lo vide, immobile e silenzioso, a una ventina di passi. Era un grosso cane pastore, che lo guardava con le orecchie basse, ritto sulle zampe anteriori. Karl gli gettò ciò che rimaneva del pasto, ma il cane lo addentò solo quando si fu allontanato. Prima che Karl lo potesse avvicinare passarono due giorni. Il cane lo seguiva a distanza. Pensò all’inizio di poterne fare un buon cane da caccia. Dovette rinunciarci, perché a ogni colpo di fucile il cane scompariva per diverse ore. Aveva una lunga cicatrice proprio dietro l’orecchio e non abbaiava mai.

– Hai fatto anche tu la guerra? – gli ripeteva Karl.

– Bravo, non abbaiare mai. Non serve. Meglio mordere subito, senza avvertire!

L’unico verso che gli usciva qualche volta era una sorta di sbadiglio misto a un guaito. Da questo Karl lo chiamò Joow.

IV

I due autocarri della Wehrmacht si fermarono nella radura, a destra della strada. Ad attenderli nel buio una ventina di uomini, muniti tutti di un bracciale, erano schierati in posizione d’attenti.

All’interno di uno degli automezzi l’Hauptmann sbuffò rivolto al suo intendente. Era l’ultima consegna di armi che doveva effettuare quella notte e si chiedeva perché mai avesse accettato di sostituire il collega. Glielo doveva, certo, un favore, ma quell’impegno si era rivelato immensamente gravoso. Erano partiti da Merano, col buio, come dei ladri, col pericolo di essere fermati dagli italiani. In tale evenienza avrebbe dovuto tirar fuori una bella tiritera a base di “spostamenti strategici” e “rifornimento viveri”. Ma la cosa più spiacevole per l’ufficiale era stato il contatto con quelli che chiamava “irregolari”: lui, ufficiale di carriera, orgoglioso della disciplina militare, aveva dovuto consegnare di paese in paese le armi a quei “dumme Tiroler”, a dei semplici civili, che si comportavano da pari a pari, come se fossero già inquadrati nell’esercito.

– Guarda questi come si sono schierati! – disse al conducente, apprestandosi a scendere.

– Luis Schwarz, Blockleiter di Vernurio! – si presentò ad alta voce, massiccio e impettito, un uomo sulla cinquantina, col braccio alzato nel saluto nazista.

– Quanti siete? – domandò l’ufficiale, mentre i suoi uomini cominciavano a scaricare le casse.

– Ventidue effettivi più una quarantina di ausiliari.

– Tutto il paese, comprese donne e bambini, – pensò tra sé l’ufficiale.

– Possiamo darvi una ventina di fucili, molte munizioni e due cassette di granate. I vostri obiettivi?

– Controllo della caserma dei carabinieri, eventuale rastrellamento della zona, cattura e consegna dei militari italiani, mantenimento dell’ordine pubblico…

– Bene, bene, – tagliò corto l’ufficiale. Aveva ascoltato quella sequenza, nello stesso ordine e con le stesse parole, tutta la sera, segno che avevano imparato a memoria la lezione. A operazioni concluse, prima che l’ufficiale risalisse sul camion l’uomo gli si avvicinò.

– E le divise?

– Quali divise?