Umschlag

Brigitte Glaser è nata nella Foresta nera nel 1955 e vive da molti anni a Colonia dove si occupa di formazione. Oltre alle serie sulla cuoca Katharina Schweitzer e la precedente, Tatort Veedel, con protagoniste due detective donne, Glaser ha pubblicato diversi libri per ragazzi.

Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

© 2015 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati
Copertina e progetto grafico: Leonardo Magrelli
Fotografia: © birdys/Photocase.com
Titolo dell’opera originale: Leichenschmaus
Traduzione dal tedesco: Antonella Salzano
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck
ISBN 978-3-86358-909-7
Le citazioni del Faust di J.W. von Goethe sono tratte da: Faust,
traduzione di G. Scalvini (per la I parte) e di G. Gazzino
(per la II parte); collezione “I classici popolari”; Edizioni Bietti;
Milano, ca 1960.

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BRIGITTE GLASER

DELITTO AL PEPE ROSA

Il primo caso della cuoca Katharina Schweitzer

Traduzione di Antonella Salzano

Per me Spielmann era il migliore.

Ci sono cuochi che si catapultano nell’olimpo della haute cuisine con raffinati piatti di pesce, altri si conquistano le stelle con squisiti piatti di selvaggina. Spielmann si era affermato con il più modesto tra gli ortaggi: aveva trasformato la patata in cibo per gli dei. Il suo soufflé alla patata e tartufo, il suo gratin al cerfoglio, i suoi bliny di patate, i suoi gnocchi in miniatura erano sensazionali: una rivelazione persino per i palati più raffinati. Dopo la pubblicazione del suo best seller Il tubero, i verdurai più ambiziosi dovettero arricchire il loro sciatto assortimento di patate senza nome, a pasta compatta o farinosa. Com’erano banali, se confrontate con l’inconfondibile gusto dell’Arnika precoce, della giallissima Leyla, della saporita Granola o del piccolo Cornetto di Bamberga!

Quando Spielmann mandò un fax a Bruxelles per dire che mi voleva nella sua brigata, non ci potevo credere. Roger dovette leggermi la comunicazione tre volte ad alta voce prima che riuscissi a capacitarmene. A quel punto mi sentii al settimo cielo, offrii dello champagne di ottima qualità e di colpo la rabbia per l’avventura di Ecki a Bombay si dileguò. Avevo un posto come chef garde-manger da Spielmann! Un posto al quale si erano candidate almeno ottanta persone! Avrei lavorato al celebre Bue d’Oro!

Quando andai a Colonia a firmare il contratto di lavoro, ero più eccitata che alla mia prima comunione. Il tratto in treno da Bruxelles a Colonia lo trascorsi quasi tutto in bagno. L’odore di tortini di patate fritti, che, insieme a una pioggerellina appiccicosa, mi accolse sullo spiazzo davanti alla stazione, mandò ancora più in subbuglio il mio stomaco.

Mi feci spiegare al volo da un tassista la strada per arrivare al Bue d’Oro, per la prima volta in vita mia passai a piedi davanti al duomo di Colonia e dieci minuti dopo ero seduta nell’ufficio di Spielmann. La stanza, riempita dalla mia presenza e dal fumo di sigaretta di Spielmann, era tappezzata fino al soffitto di attestati e fotografie.

“Lei dunque è Katharina Schweitzer! Qualche irlandese in famiglia, signorina?”

Non c’era colloquio di lavoro in cui non si parlasse dei miei capelli rossi! Spielmann si risparmiò la seconda domanda scomoda sul mio aspetto, forse per via della sua stessa altezza: era sul metro e novanta abbondante e poteva comodamente guardare dall’alto in basso il mio metro e ottanta. La terza domanda, quella sul mio peso, fino a quel momento non l’aveva mai posta nessuno: si erano limitati tutti a pensarla. Non sono esattamente magra, anzi sono cicciottella e, tutto sommato, ho una figura piuttosto imponente. A carnevale non sarei mai potuta passare inosservata, neanche travestendomi con la più anonima delle maschere.

“Lei è davvero una pasticcera fantastica.”

Spielmann imitò l’accento viennese di Gerer in maniera così goffa che scoppiai a ridere, nonostante l’agitazione. Gerer era stato il mio capo a Vienna, era stato lui a raccomandarmi a Spielmann. Anche Spielmann rise e la cosa lo fece vagamente assomigliare a un bambinone cresciuto. Aveva i capelli a spazzola, corti e brizzolati, e il naso ancora più grosso di quanto non apparisse nelle foto che avevo visto.

“Lei ha carattere, non mi è difficile credere che si farà valere nella nostra brigata di maschietti!”

Avevo sentito spesso frasi del genere e ogni volta mi montava la rabbia. La qualifica di chef, nella haute cuisine, è appannaggio degli uomini. E più mi avvicinavo a quel tempio sacro, più l’aria si faceva rarefatta. Per noi donne quello è un contesto difficile. Ero molto curiosa di sapere se nella brigata di Spielmann ci fosse anche solo un’altra donna.

Lo squillo del telefono interruppe il nostro colloquio. Mentre Spielmann parlava, osservai le foto appese al muro alle sue spalle. Lui compariva in tutte, ora con Millowitsch, ora con Genscher, ora con Harald Schmidt. Vanitoso come un pavone.

“Ho bisogno di lei nel turno serale,” disse, dopo aver abbassato la cornetta. “Avrà ai suoi ordini un commis e un apprendista. Schädele lavora molto bene e il piccolo Storck è un ragazzino in gamba. Non avrà nessun problema. Attaccherà alle diciotto e smonterà quando avrà finito. Ma lo saprà già, visto che è nel settore da un po’. Non serve che le parli degli orari di lavoro in una cucina. Quindi, intesi,” mi tese la mano lunga e magra. “Benvenuta a Colonia!”

Mi alzai e urtai il piede contro un paio di quei pattini a rotelle che vanno tanto di moda.

“Ah, i miei rollerblade! Ci faccio dei bei giri sulla spianata del duomo per rilassarmi.”

Hanno sempre un grillo per la testa, queste star dei fornelli. Alcuni giocano a golf come forsennati, altri si danno alla caccia di selvaggina. A volte, sognando a occhi aperti, penso a quale hobby stravagante potrei dedicarmi, una volta famosa. Il kitchen-climbing, magari?

“Venga, le mostro la cucina.” Spielmann spense la sigaretta. “Ha già una sistemazione?”

Non ce l’avevo. Fino a quel momento la ricerca di una stanza non era mai stata un problema, noi cuochi ci diamo sempre una mano a vicenda. Fu così anche quella volta.

“Parli con il suo predecessore,” suggerì Spielmann. “Lui va da Okamoto a Tokyo. Magari lei potrebbe subentrare al suo posto nell’appartamento.”

Mi tenne la porta aperta. Attraversammo un corridoio stretto, passando davanti al bagno riservato al personale, di fronte al quale si trovava un armadietto per ciascun addetto, e mi accompagnò in cucina.

La cucina era una vera bomba. Nel corso della mia vita lavorativa ne avevo già viste parecchie e sapevo bene che un ristorante di prima classe non sempre era garanzia di una cucina di alto livello. Ma lì tutto era impeccabile: il locale era lungo e luminoso, la luce che entrava dalle grandi finestre e dagli stretti lucernai, si infrangeva sui luccicanti piani di lavoro in acciaio inossidabile. Al centro era sistemato un piano cottura di tutto rispetto, con fornelli a gas, piastre per grigliare e friggitrice: Spielmann aveva già persino le piastre a induzione. Sui ripiani in basso luccicavano padelle di ghisa, pentole in acciaio inox e casseruole di rame. Lo spazio tra i fornelli e i piani di lavoro era molto ampio, ci si poteva lavorare comodamente in dieci, se non addirittura in dodici, senza pestarsi i piedi. Spielmann finse di non sentirsi lusingato dai miei continui “ah” e “oh” e mi accompagnò al bancone passapiatti, posto di traverso rispetto alle postazioni di lavoro, sul quale si appoggiavano i piatti, pronti per essere prelevati dai camerieri. Aprì la credenza sottostante e mi mostrò il suo servizio di porcellana. Era color salmone, con bordi leggermente ondulati, e spesso era messo in contrasto con piatti neri della stessa fattura. Non era esattamente di mio gusto, ma senza dubbio raffinato e costoso.

Spostandoci verso le celle frigorifere, incontrammo Niehauser, il capocuoco di Spielmann. Spielmann fece le debite presentazioni. Niehauser batté i tacchi e fece un inchino formale. Era un pochino più basso e un paio di anni più vecchio di me, in forma, lampadato e, nell’insieme, aveva un aspetto ben curato. Non avevo ancora sentito nulla su di lui e mi sforzai di non etichettarlo su due piedi come un bellimbusto. Spielmann chiarì con Niehauser un paio di dettagli sul menù del giorno, poi mi portò alle celle frigorifere e al deposito delle patate, dov’erano conservate tutte le Arnika, le Leyla e i Cornetti di Bamberga.

Per finire, mi mostrò il ristorante. Un locale grande e immerso nella penombra, di un’eleganza barocca. La sala era arredata con un gruppo di nove tavoli tondi di dimensioni diverse. Palme, banani e felci piantate in pentole di rame separavano i tavoli l’uno dall’altro. Tutto ricordava l’arredamento dei grandi hotel fin de siècle. A rafforzare quell’ impressione, le tovaglie damascate color crema, le posate in argento inglese, i calici da vino francesi con i bordi dorati e soprattutto il tappeto rosso rubino con pagliuzze dorate. L’unica cosa che mi piacque davvero furono le composizioni floreali sui tavoli: rigogliosi ranuncoli rosa pallido, frammisti a roselline selvatiche ed edera dalle foglioline di un verde delicato. Grosse palme nascondevano un bancone stretto con le bevande e la porta a vento che dava accesso alla cucina. Sull’antica credenza di mogano, dov’erano conservati gli alcolici, era appoggiato, in bella vista, un bue d’oro, largo circa cinquanta centimetri e alto più o meno trenta. Al di là del fatto che stonasse con il resto dell’arredamento, era anche brutto da vedere.

“Un oggetto orrendo, vero?” disse Spielmann. “Un ricordo di mio zio, dal quale ho ereditato il ristorante.”

Tornammo in cucina attraverso la porta a vento.

Spielmann mi presentò la brigata, che si era appena messa al lavoro. Kraußler, il salsiere, tagliava ossi di pollo e, accanto a lui, una spilungona con i capelli corti, tinti di giallo, arrostiva delle interiora. Sono sempre felice quando nella brigata ci sono altre donne. Ma quando Sandra Bäumer mi diede la mano per salutarmi e bisbigliò: “Molto piacere,” guardandomi con occhi spenti, capii che mi avrebbe fatta arrabbiare. È difficile che mi sbagli in quel tipo di valutazioni. Ho fiuto per catastrofi e sciagure.

Ma di omicidi al Bue d’Oro non ne ho fiutati. Nemmeno uno.

***

Il primo omicidio avvenne in un magnifico giorno di inizio estate. Lavoravo da Spielmann già da tre mesi e mi ero ambientata nella brigata. Nella mia postazione di lavoro la collaborazione funzionava bene. Il mio commis, Holger Schädele, un ragazzo rotondetto e poco tonico, con la pelle chiara e i riccioli neri, aveva l’aspetto di un puttino svevo. Era balbuziente e quindi parlava poco. L’unica cosa che riusciva a citare in scioltezza era il Faust di Goethe. A Stoccarda era stato allievo di Vincent Klinck e lavorava con concentrazione e serietà. Lo stesso non si poteva dire del nostro apprendista, Dany Storck. Andava sempre spronato a darsi una mossa e, quando lo faceva, finiva per urtare contro qualcosa. Ma era impossibile essere cattivi con quel ragazzino impacciato. Il suo sorriso, al quale mancava un dente, era così affascinante che si finiva per perdonarlo subito. Kraußler, che si esprimeva esclusivamente nel colorito dialetto di Colonia, non era solo un cuoco, ma anche un macellaio, un rude sempliciotto, figlio di un mattatore di Poll, che, carne a parte, non amava nulla più del figlioletto e della sua città natale. La sua assistente, l’apprendista cuoca Sandra Bäumer, era la tipica megera, tanto brava a criticare, quanto a offendersi per qualunque inezia. E poi c’era Pfister, l’alsaziano lentigginoso. L’anima della brigata. Pfister aveva sempre una parola buona o un incoraggiamento per tutti, sapeva riportare la calma nelle situazioni tese e comporre le liti. Aveva quasi quarant’anni e lavorava nella nostra cucina come chef tournant, il ruolo più impegnativo in una brigata. Il tournant lavora dove c’è bisogno di qualcuno e nel corso di una sera cambia mansione di continuo.

Ricordo ancora perfettamente il giorno in cui avvenne il primo omicidio, perché avevo ricevuto posta da Ecki. Una splendida lettera d’amore che mi aveva rattristata. Perché se ne stava sempre dall’altra parte del mondo? Bombay! Avrebbe potuto imparare la cucina indiana anche a Londra.

In preda alla malinconia, mi misi in cammino per andare al lavoro. Ci andai a piedi, come sempre. Il cielo sopra Colonia sembrava verniciato di blu, l’aria era mite e dolce, carica di profumi estivi. Per la prima volta quell’anno indossavo un vestito senza maniche, di lino fresco. Il colore verde brillante si intonava perfettamente con i miei riccioli rossi. Mi sentivo meravigliosamente bene. Il Reno luccicava sotto il ponte Hohenzollern, il lungofiume brulicava di gente. Il sole invitava a uscire, tutti volevano godersi il caldo, sentire il profumo dei fiori di tiglio, bere una Kölsch all’aperto. Perfetti sconosciuti si salutavano l’un l’altro e allegre risate di bambini riecheggiavano dai sassi del giardino del Reno fin sulla passeggiata lungo il fiume. Mi fermai un istante, con il viso rivolto al sole, e mi lasciai scaldare il cuore, poi mi incamminai lungo il Reno. Mi sarei fermata volentieri in uno dei biergarten, per leggere ancora una volta la lettera di Ecki alla luce del sole, ma erano le quattro passate e dovevo andare al lavoro.

Nessuno si accorse che ero in ritardo. Il bel tempo portava il buonumore anche al Bue d’Oro. Kraußler stava affilando il suo coltello a tempo di musica, Sandra Bäumer stava facendo vedere tutte le sue nuove minigonne in pelle prima di indossare gli abiti da lavoro. Pfister fischiettava una melodia, Holger mormorava: “Ecco fiume e ruscelli già liberi dal ghiaccio …” Probabilmente Goethe, nel Faust, non aveva scritto versi sull’estate. Quel giorno, anche il nostro capocuoco, il compassato Niehauser, soprannominato “il Generale,” era sorridente.

Spielmann, invece, era scontroso, come sempre nelle ultime settimane. Se non altro quel giorno nulla lasciava presagire uno dei suoi temibili scoppi d’ira. In quei casi si metteva a urlare così forte da fare tintinnare i bicchieri e prendeva a pugni tutto ciò che gli capitava a tiro. Chiunque avesse mai scatenato la sua rabbia doveva nascondersi in fretta, perché non era raro che Spielmann facesse volare una padella. Niehauser restava sempre inerme davanti a quegli accessi di rabbia. Solo il buon Pfister ogni tanto riusciva a placare il capo.

Quel giorno Spielmann rimase in cucina solo per poco. Discusse del menù con Niehauser, intimò un brusco: “Guai-a-voi-se-fate-le-lumache-come-ieri,” e si ritirò nel suo ufficio.

Complice il bel tempo, nessuno perse il buonumore. Lavorammo di buona lena, non potevamo fare diversamente. Il Bue era al completo, prenotato fino all’ultimo posto. A Colonia c’era la fiera e gli espositori più importanti invitavano i clienti migliori a mangiare da noi.

Tra gli antipasti, la mousse di pesce era la più lunga da preparare. Io mi occupai dei coregoni e invitai Holger a sbollentare il porro. Era già intento a riempire la seconda formina con le striscioline di porro verde scuro, quando Dany Storck ci raggiunse. Con i capelli scompigliati e a corto di respiro, il giovane si profuse in mille scuse. Ero così di buonumore che non lo sgridai, lo spedii semplicemente a sfilettare il pesce. Presto trovammo tutti e tre il nostro ritmo.

Verso le otto iniziarono ad arrivare gli ospiti. Quando c’era la fiera, arrivavano quasi tutti a quell’ora, a piccoli gruppi. Questo voleva dire fare i salti mortali in cucina, perché tutti volevano essere serviti al più presto e dovevano esserci sempre almeno quattro piatti pronti contemporaneamente.

“Al tavolo sette c’è un tipo da favola! Riccioli biondi, naso da Cesare!” Krüger, il capocameriere gay, si divertiva un sacco a nominare ogni giorno il suo uomo della serata.

“Sempre biondo, sarebbe ora che adocchiassi qualche morettino,” scherzò Kraußler, passandogli al volo un petto d’anatra.

Ascoltavo con un orecchio solo. Insieme a Holger e Dany, mi stavo occupando degli antipasti. Krüger aveva bisogno per prima cosa dei nostri piatti e proprio quel giorno Spielmann aveva previsto nel menù un soufflé di romice con salmone in camicia e zabaione al Riesling. I soufflé sono creazioni delicate a base di uova, che non solo vanno cotti a puntino, ma, appena pronti, devono essere subito serviti al cliente, perché possono afflosciarsi da un secondo all’altro. Dany sbollentava il salmone, Holger teneva d’occhio i soufflé e io montavo lo zabaione. Quando Krüger aggiunse alle ordinazioni due tortini di pesce e una zuppa di carote con olio di semi di girasole, Pfister si affrettò ad aiutarci. Così, intorno alle dieci e trenta, consegnato l’ultimo antipasto, ci stavamo godendo una piccola pausa per rifiatare, quando Krüger entrò in cucina terrorizzato.

“Il capo, ho bisogno del capo!” urlò convulso, ansimando per prendere aria, e si precipitò di corsa verso l’ufficio di Spielmann. Pochi secondi più tardi, i due attraversarono in fretta e furia la cucina e sparirono nel ristorante.

“Sembra una faccenda grave,” disse Dany.

“Ma va, Krüger, la checca traghetta-piatti, tende a ingigantire tutto,” disse Sandra. Nonostante avesse tre padelle sul fuoco, alla spilungona non sfuggiva nulla di ciò che accadeva in cucina.

“No, no,” Pfister scosse il capo, “dev’essere successo qualcosa.”

Aveva ragione. Poco dopo Spielmann e Krüger, trafelati e affannati, portarono in cucina una delle grandi sedie del ristorante. Vi stava seduto un uomo con la testa completamente piegata in avanti e le braccia strette intorno alla pancia. Aveva i pantaloni imbrattati di soufflé di romice, il viso bianco come un cencio e gli occhi spalancati.

Mi bastò un attimo per capire cos’era successo: l’uomo era morto.

Krüger si asciugò il sudore dalla fronte con la salvietta, mentre Spielmann respirava a fatica.

“Pfister,” ansimò. “Presto, chiama il 110. Di’ che un cliente è morto durante la cena. Devono passare dal retro, a sirene spente, se possibile! E tu, Krüger, torna di là e controlla che i clienti rimangano tranquilli. Un po’ di diplomazia, una grappa, un Marc offerto dalla casa: tu sai come cavartela!”

“Capo!” si lagnò Krüger. “Siamo al completo! Tutti dalla fiera! Lei sa cosa significa! Sono impietosi, insistenti e brontoloni. Da solo non me la caverò mai e poi mai, neanche con tutta la buona volontà! Quando si spargerà la notizia che l’uomo è morto, smetteranno immediatamente di mangiare, si rifiuteranno di pagare il conto e saranno presi dal panico!” Si lasciò cadere su uno sgabello accanto al passapiatti e si asciugò il sudore dalla fronte.

“Nessuno sa che l’uomo è morto,” lo tranquillizzò Spielmann, “e se lei tiene la bocca chiusa, non verrà a saperlo nessuno. Schweitzer!” Spielmann si rivolse a me, “vada di là con lui. Chieda agli ospiti qualcosa sul cibo, si faccia dire cosa hanno gradito di più, sorrida, sia carina! Sa cosa voglio dire!”

Non mi andava per nulla a genio l’idea di dover andare là fuori. Avrebbe dovuto mandare la Bäumer o Pfister. Questo è lo svantaggio di essere grandi e grossi come me. Tutti pensano che chi ha spalle larghe possa sopportare un peso maggiore.

“E cosa dico se qualcuno chiede del morto?”

“Che si è trattato di un incidente, che non sappiamo nulla di più preciso, che il medico arriverà a momenti,” Spielmann divenne impaziente, “non dovrete tenerli a bada a lungo, appena arriva il medico, vi raggiungo! E ora muovetevi, ogni minuto è prezioso.”

Con movimenti convulsi delle braccia, mi spinse dritta dritta verso l’ingresso della sala. Mentre andavo nel ristorante, mi cadde per un attimo lo sguardo su Niehauser. Fissava il morto sulla sedia, pallido e muto.

“Niehauser, Kraußler,” sentii Spielmann insistere alle mie spalle, “datemi una mano, portiamo il morto nel mio ufficio.”

“Non posso,” balbettò Niehauser. “Non posso prendere quella sedia. Scusatemi.” Si era fatto ancora più bianco e corse alla toilette tappandosi la bocca con entrambe le mani.

Pfister e io ci guardammo meravigliati. Fino ad allora il Generale non aveva mai perso il controllo.

Spielmann scosse la testa.

“Vorrà dire che ci penserò da solo. Avanti, Kraußler, aiutami! Voi tutti, al lavoro. Dobbiamo assicurarci che là fuori abbiano da mangiare. Pfister, prenda il posto della Schweitzer!”

“Si metta un grembiule pulito!” mi sibilò Krüger all’orecchio. “Guai a lei se mi fa fare una figuraccia là fuori!”

“Non credo che se la caverà da solo,” ribattei.

Ma a quel punto si era già stampato in faccia il suo sorriso cerimonioso da cameriere e aveva spinto la porta che dava sulla sala. Mi rassettai la casacca da cuoca, rivoltai il mio grembiule e lo seguii.

A una prima occhiata, in sala non c’erano tracce del fatto che fosse appena morto un uomo. Krüger in cucina aveva ingigantito le cose. Tutti gli ospiti erano seduti al loro posto, chiacchieravano, mangiavano, ridevano. Tra il tappeto spesso e le piante che facevano da divisorio, si avvertivano solo un leggero mormorio, il tintinnio di bicchieri e il rumore di posate. Fu un uomo robusto, sulla sessantina inoltrata e con un foulard costoso, seduto al tavolo cinque, a rompere quel brusio di sottofondo con una fragorosa risata. Krüger si affrettò verso il tavolo due, dove era seduto da solo un uomo mingherlino che lo aspettava con aria interrogativa. Doveva essere il commensale del morto. Krüger sussurrò qualcosa, si diresse alla credenza in mogano e tornò al tavolo con una bottiglia di grappa Trester. Il mingherlino vuotò il bicchiere in un sol sorso e fissò lo sguardo sui quadri appesi al muro. Erano incisioni di varietà di frutta e verdura rare o, in qualche caso, estinte. Krüger venne chiamato al grande tavolo tre, dove il tipico giovane manager rampante, vestito con eleganza affettata, si lamentava a gran voce che il suo antipasto di pesce non fosse stato ancora servito. Da uno dei piccoli tavoli davanti alla vetrata che dava sulla strada, mi fece cenno un ciccione piccolo di statura e con i capelli rossi.

“Signorina, ci porti ancora un po’ di quel delizioso vinello,” disse con un’inconfondibile cantilena renana, indicando la bottiglia vuota accanto a lui. Sulla sua cravatta notai tracce di salsa e la camicia gli stava così stretta che temetti di essere colpita di lì a poco da un bottone impazzito.

“E, dica, il signore si è ripreso?”

“Non lo sappiamo, ma il medico sta arrivando.”

“Quando l’hanno portato via, bianco come un cadavere, sembrava una cosa seria,” aggiunse la donna seduta al suo fianco.

“Non preoccupatevi, sta bene, considerate le circostanze.” Formulai questa bella risposta e, chi lo sa, magari non era nemmeno una bugia.

“Sono cose che non capitano spesso. Cosa fate in quei casi? Dove lo avete portato?” La donna voleva sapere tutto, per filo e per segno.

“Nell’ufficio del capo c’è un divano.”

“Quel tizio ha mangiato pesce?”

Dio, quanto era irritante, pensai, sforzandomi di sorridere.

“Non ci pensare, tesoro,” il grassone rassicurò la moglie dandole dei colpetti sulla mano, “una volta stava per soffocare mangiando un piatto di pesce,” mi spiegò.

Il compagno di tavolo del morto chiese un altro bicchiere di grappa. Krüger era ancora alle prese con il giovane manager. A quel punto, mi scusai con i renani e presi la bottiglia di Trester.

“Condoglianze,” dissi, mentre riempivo il bicchiere.

“Condoglianze? Conoscevo a malapena Schwertfeger. Una cosa piuttosto sgradevole. Volevamo concludere un affare. Avevamo quasi raggiunto l’accordo. Era cosa fatta ormai. Mi prepari il conto, non riesco proprio più a mangiare niente.”

“Naturalmente. Il mio collega arriva subito.”

Raggiunsi in fretta il tavolo tre e sospinsi Krüger dietro un banano.

“Il signore laggiù ha chiesto il conto.”

“Non può mica scomparire nel nulla! Sapevo che sarebbe stata una scocciatura,” si lamentò Krüger.

“Gli versi ancora un po’ di grappa, io chiedo a Spielmann come ci dobbiamo comportare.”

In cucina, Spielmann era impegnato in una conversazione animata con due poliziotti.

“Schweitzerina!” mi chiamò a sé. “Mi prenda in fretta il blocchetto delle ordinazioni sul bancone delle bevande. E dica a Krüger di pregare il signore che era seduto al tavolo di Schwertfeger, sì sì, il morto si chiamava così, di passare quanto prima dal mio ufficio, così che i signori poliziotti possano annotarsi nome e indirizzo per eventuali indagini.”

Tornai velocemente con il blocchetto. Spielmann lo aprì e lo mostrò ai poliziotti.

“Qui, vedete, non è assolutamente necessario annotarsi i nomi e gli indirizzi di tutti gli ospiti. Nel nostro locale è obbligatoria la prenotazione.” Indicò le registrazioni. “Il tavolo numero quattro è stato prenotato dal segretario di stato Hassenkötter, il tavolo sette dalla dottoressa Engelhard, dell’ufficio stampa della WDR, al tavolo due c’era il signor Schwertfeger, il tre, il cinque e il nove sono ospiti della fiera. Per ogni tavolo c’è una prenotazione con nome e numero di telefono. E non avete sentito cos’ha detto il medico? Un infarto! Una cosa tragica, ma naturale!”

“Per ora si tratta di una diagnosi provvisoria,” lo corresse uno dei poliziotti, gonfiando il petto.

L’altro continuava a guardare l’orologio e, a un certo punto, disse al suo collega: “Andiamo, va bene così. Penso che per ora la lista degli ospiti e i nominativi del personale siano sufficienti.” Poi domandò a Spielmann: “Può farcene una copia?”

Spielmann acconsentì. Poco dopo congedò gli agenti.

“Perché è venuta la polizia?” gli domandai.

“Li ha chiamati il medico. È tenuto a farlo. Decesso per cause ignote. Semplice routine. Sono contento di averli convinti a non prendere le generalità di tutti gli ospiti. Gli sbirri al Bue d’Oro, ci mancava solo questa. Come vanno le cose là fuori, Schweitzerina?”

Non aspettò la mia risposta e continuò a parlare. “Vado a vedere se Krüger ha ancora bisogno di aiuto o se riesce a cavarsela da solo. Controlli che vengano serviti i dessert, poi, se Dio vuole, potremo chiudere.”

Diedi un’occhiata al foglietto delle ordinazioni sul passapiatti. Mancavano ancora all’appello i dessert per quattro tavoli.

“Sono tornata,” dissi a Pfister.

“Allora?” chiese indicando la porta a vento.

“Preferisco lavorare da questa parte,” dissi, e gli raccontai quello che avevo visto.

“Manda i ragazzi in pausa, hanno sgobbato finora,” disse. Come ho già detto, Pfister era l’anima del locale, anche in una serata del genere. Feci riprendere fiato a Dany e Holger e presi il sorbetto al lampone dal frigorifero.

“Hai mai vissuto qualcosa di simile?” chiesi a Pfister, guarnendo una sottilissima sfoglia di wafer belga con due palline di sorbetto.

“Quando ero a Berna, da Hürlimann, un cuoco ebbe un attacco di epilessia,” disse, “ma poi tutto si sistemò. E tu?”

“Mai. Tutto molto strano. Dov’è la menta?”

“A Niehauser serviva ancora qualche fogliolina. Forse il vaso è sul passapiatti. Oggi al Generale non ne è andata bene una. La cosa gli ha dato allo stomaco. Guarda, non ha ancora ripreso colore.”

Presi la menta. Niehauser era davvero ridotto uno straccio.

“Il morto è ancora nell’ufficio di Spielmann?” chiesi a Pfister.

“No no, gli infermieri l’hanno portato via.”

“E che ne sarà adesso del cadavere?”

“Lo stai chiedendo alla persona sbagliata,” disse Pfister. “Obitorio, autopsia, qualcosa del genere.”

“Questo Schwertfeger mangiava spesso qui da noi?”

“Lo puoi chiedere dopo a Krüger. Quali dessert devono ancora uscire?”

“Due parfait After Eight, una crêpe alle fragoline di bosco, un parmigiano con aceto balsamico. Il morto aveva già ordinato il dolce?”

“Ora non andare sul macabro!”

“Dove sono i parfait e la crêpe?” tuonò Niehauser.

Ci concentrammo sul lavoro. Pfister sbatté le uova e io tagliai a fettine il parfait. I ragazzi rientrarono dalla pausa e presto finimmo di preparare tutti i dolci. Verso l’una la cucina era pulita e potemmo andare a casa.

***

La cucina è un posto meraviglioso: piani di lavoro cromati e brillanti, fornelli tirati a lucido, mestoli, fruste per montare a neve, palette, ciotole, pentole, spatole, casseruole. Per me il momento più felice della giornata è stare con una casacca pulita in una cucina bella linda, legarmi il grembiule, infilarci la salvietta, preparare i coltelli e studiare il menù del giorno!

È una cosa che ho preso da mia madre. Fin da piccola mi incantavo a osservarla, quando alla Locanda del Tiglio preparava coltello e tagliere, per poi non fare niente.

È un momento di tranquillità e concentrazione. Forse sono diventata cuoca solo per quel motivo. Prima ancora di prendere in mano la prima cipolla, il primo uovo, so già cosa farne. Nella mia testa vedo già il piatto pronto, ne annuso il profumo. Questa è pura felicità. Chi non è cuoco forse non può capirlo.

Quando, il giorno successivo, alle diciotto in punto, arrivai nella cucina di Spielmann, la trovai affollata. Degli sconosciuti si affaccendavano intorno alle postazioni di lavoro. Al centro, vicino al blocco dei fornelli, stava in piedi un tizio con una coda di cavallo e uno spolverino di pelle unto e bisunto, che impartiva ordini. Dall’angolo sinistro della bocca gli pendeva una sigaretta rollata e il fatto che la cenere cadesse sul pavimento non lo disturbava affatto. Molti cuochi fumano, un fumatore incallito come Spielmann non è una rarità nel settore, ma nessuno si azzarderebbe mai a fumare in cucina. Lì si possono spandere solo i profumi dei nostri piatti, non è accettabile che ci sia puzza di nicotina! Ero così indignata che non spiccicai parola. Solo quando un tizio sulla trentina e con i capelli a spazzola prese il mio sorbetto dal congelatore e ci infilò dentro il naso, mi tornò la parlantina.

“Rimetta subito a posto il sorbetto al lampone!” lo sgridai.

“Lei lavora qui?” chiese quello con lo spolverino unto. “Allora raggiunga gli altri nella sala e ci lasci fare il nostro lavoro in santa pace.” Al tizio con i capelli a spazzola disse: “Prendi il solito campione di roba e rimetti a posto il resto!”

Naturalmente intuii cosa significasse quell’irruzione in cucina, ma fu comunque uno choc quando in sala Pfister mi disse che Schwertfeger era stato avvelenato.

“Prendono campioni di tutto quello che è avanzato ieri,” mi spiegò Pfister.

Mi guardai intorno. Vicino alla credenza c’era un mucchio di biancheria da tavola sporca e dietro al piccolo bancone delle bevande i due giovani camerieri risciacquavano gli ultimi bicchieri. Sul pavimento era stato passato l’aspirapolvere, Krüger aveva già riapparecchiato i tavoli, il Bue d’Oro aspettava nuovi ospiti. Una chiara luce estiva penetrava attraverso le tende color champagne e conferiva un tenue splendore ai bicchieri finemente cesellati, ai candelabri d’argento, alle étagère in porcellana di Meissen e alle cornici delle vecchie incisioni. Krüger indugiò ancora a lucidare il manico di un coltello, a strappare una rosa appassita da una composizione floreale e a spolverare l’orlo dorato di un bicchiere da vino rosso. Guizzava continuamente alla finestra per scacciare i turisti curiosi, che schiacciavano il naso contro la vetrata. Con la bocca tirata, correva incessantemente in giro per i tavoli. Non era solo di cattivo umore, ma letteralmente infuriato.

“Siamo prenotati fino all’ultimo tavolo. Verrà il sindaco, accompagnato da due ospiti australiani, sono attesi Neven DuMont e von Oppenheim con la crème della Camera dell’Industria e del Commercio e gli espositori, che da anni lasciano un bel po’ di soldini qui da noi. Hanno prenotato da settimane. Ora dovrei disdire tutto? Da quelli là,” indicò la cucina, “non si viene a sapere niente e il capo,” a quel punto guardò in alto, “è come se fosse stato di nuovo inghiottito dalla terra che ha sotto i piedi.”

“È al telefono con il suo avvocato e cerca di chiarire per quanto tempo gli sbirri possano bloccarci la cucina,” disse Sandra. Era seduta scomposta su due sedie del tavolo tre. Anche gli altri cuochi della brigata erano seduti lì. Kraußler leggeva l’Express, Dany e Holger smanettavano sui cellulari, Pfister ispezionava le foglie di un banano. Ovviamente, anch’io mi ero seduta al tavolo con gli altri. E, ovviamente, anche gli altri due camerieri, che avevano finito di lavare i bicchieri, si accomodarono a un altro tavolo. Nonostante non fosse necessario, gli addetti alla cucina e alla sala erano seduti in posti diversi, ma nel nostro settore funziona così. Cuochi e camerieri sono due mondi diversi.

Krüger non era arrabbiato solo perché temeva di dover annullare le prenotazioni degli ospiti della serata, ma anche perché noi cuochi stavamo seduti nel suo ristorante. Portò via una sedia a Sandra e strappò di mano a Dany un tovagliolo, con un gridolino indignato.

“Conosceva il morto?” chiese Pfister, lasciando perdere le foglie.

“Certo,” replicò Krüger in modo impertinente, spianando una tovaglia. “Schwertfeger era un cliente fisso da noi.”

“Allora ci racconti qualcosa,” insistette Pfister.

Tutti fissarono Krüger con aria interrogativa. Non riusciva proprio a starsene fermo e ora sgambettava intorno al tavolo cinque.

“Oh cielo! Sapete quanto parli poco volentieri dei clienti!”

Lo sguardo di Pfister e il mio si incrociarono; sorridemmo entrambi. Sapevamo tutti che era l’esatto contrario della verità. Quando di sera Krüger si sedeva con noi al passapiatti, era una pettegola di prima categoria.

“Non faccia così il prezioso,” lo adulò Pfister. “In cucina veniamo a sapere così poco di quello che succede qui fuori.”

“Beati voi che ve ne stati tranquilli in cucina tra i fornelli!” Krüger finalmente si sedette al tavolo dei camerieri, con un leggero sospiro. “Vi ho già raccontato la storia di quel piccolo smorfioso che ha osato ordinare una zuppa di tartufi della Maggi? Maggi! Perché non se ne va direttamente al McDonald’s? E la storia della coppia che non ha fatto che litigare dall’amuse-bouche al dessert e poi non voleva pagare il conto perché ognuno dei due pretendeva che pagasse l’altro? Alla fine ho preparato due scontrini separati, ognuno a tre zeri …”

“Ora ci racconta tutta la storia da Adamo ed Eva!” si lamentò Sandra, stropicciando un tovagliolo. Krüger si precipitò su di lei, veloce come un fulmine, e glielo levò di mano.

“Era un cliente fisso, quello Schwertfeger, e sicuramente era di Colonia,” fece eco Kraußler, in dialetto di Colonia, chiudendo il suo giornale.

“Di Rath, per essere precisi,” confermò Krüger, “viveva nello stesso complesso residenziale del presidente della CDU di Colonia. Me l’ha raccontato una volta. Un posticino tranquillo, immerso nel verde, alle porte della foresta di Königsforst, un posto esclusivo, un’ottima zona. Noi non potremmo permettercelo.”

“Noi non potremmo permetterci neanche di andare a mangiare al Bue d’Oro,” aggiunse Sandra. “Con chi stava mangiando Schwertfeger?”

“Non mi ha presentato il suo commensale, se è quello che intendete!” Krüger diede un colpetto sulle dita a uno dei camerieri, che si stava mangiando le unghie. “Ma naturalmente ci si fa un’idea. Veniva quasi esclusivamente con soci d’affari. Molto raramente con sua moglie, la tipica parvenue. Girocollo di perle, orologio d’oro di Cartier, manicure impeccabile, tailleur costoso ma banale, rossetto rosa, ombretto discreto. Schwertfeger era un tipo molto gioviale, lei invece è la classica principessa sul pisello. Una volta il vino bianco era troppo freddo, una volta la carne di cervo sapeva troppo di selvaggina, un’altra volta il burro era troppo solido. Amava sentire il suono della sua voce. Per lei le lamentele erano un’occasione per dire qualcosa. Con suo marito non scambiava praticamente una parola. E in ogni caso nemmeno lui parlava con lei. Dev’essere stato proprio un bel matrimonio.”

Il telefono squillò e Krüger si affrettò alla cornetta.

“Con chi era qui Schwertfeger ieri sera?” chiese Pfister, quando Krüger tornò.

“Un socio d’affari. Per quel poveraccio naturalmente è stato un vero dramma. Non sapeva proprio cosa fare. Per fortuna non era un soggetto isterico, mi ha chiamato a sé con discrezione, quando Schwertfeger si è accasciato. Ho visto subito che era morto, ma per sicurezza gli ho tastato il polso. So come si fa, proprio l’anno scorso ho rinfrescato le mie nozioni di primo soccorso con l’aiuto di un giovane medico. Per fortuna erano seduti al tavolo numero due. Da lì alla cucina, il percorso è stato breve. Il resto lo sapete già!”

“E come si guadagnava la pagnotta?” volle sapere Kraußler.

“Si occupava di trasporti, penso nell’ambito aeroportuale,” suppose Krüger.

“Commerciava in automobili,” si intromise Sandra.

“Come l’hai saputo?” le chiesi.

“Me l’ha raccontato ieri Niehauser. Conosceva Schwertfeger, ha comprato la sua auto da lui!”

“Ecco perché era così sconvolto ieri,” osservò Pfister. “Dove diavolo si è cacciato?”

“In mezzo a tutta questa confusione, me ne sono completamente dimenticato! Il Generale si è dato malato.” Krüger sospirò. “Disturbi gastrointestinali.”

Non era proprio da Niehauser! Il Generale non si dava mai malato, era assolutamente ligio al dovere. Non sarebbe mai rimasto a casa per un po’ di nausea. Era sempre il primo ad arrivare e l’ultimo a lasciare la cucina. Si atteneva alle ricette e agli ordini di Spielmann con una precisione che rasentava la maniacalità. Aveva una concezione del lavoro e dell’ordine un po’ antiquata, da soldatino prussiano.

Ogni sera ingaggiava una battaglia con i gusti critici e il palato esigente dei nostri ospiti. Mandava in avanscoperta l’amuse-bouche, il piccolo benvenuto da parte della cucina. “Nessuno di voi si azzardi a chiamarlo amuse-gueule!” non si stancava mai di raccomandare. “Gueule è una parola rozza con un suono duro e spigoloso che significa muso, grugno, bouche, invece, bocca, ha un suono morbido e rotondo. Molto più adatto al nostro stuzzichino.” Esigeva che quelle piccole squisitezze fossero impeccabili. Non faceva sconti. Le minuscole tartine alle mele e maggiorana con fegato d’oca croccante, i bocconcini di sogliola alla citronella, la mousse di gamberi su un letto di sfoglia al coriandolo e quant’altro si inventasse Spielmann, dovevano essere ineccepibili nel gusto, nel colore e nella presentazione.

“Con questo assaggino vogliamo stupire qualunque ospite, non importa se preferisce il pesce o la carne,” faceva notare Niehauser. “L’amuse-bouche è il nostro biglietto da visita.”

Con gli antipasti sferrava il primo attacco. A quel punto combatteva su più fronti.

Si trattava di conquistare sia gli amanti dei crostacei appena pescati e dei piatti di pesce più delicati, sia chi preferiva le interiora gustose, le zuppe corpose o le crudités croccanti. Sul menù doveva esserci un piatto per ogni gusto. Se riteneva che il menù di Spielmann fosse carente, chiedeva al capo delle integrazioni. Spielmann gliele concedeva sempre, ma io mi arrabbiavo, perché la mia mole di lavoro aumentava.

Con la portata di carne metteva in campo la cavalleria. Era la mossa che decideva la vittoria o la sconfitta. Lì si trattava di conquistare i palati più raffinati, le papille gustative più esigenti. Con medaglioni di cervo alla griglia, spezzatino di manzo al vino rosso, lombi d’agnello alle spezie, teneri petti di faraona, sella di vitello in crosta, e, perché no, a volte addirittura con un assaggio di saporita carne di scrofa, sotto forma di delicati ganascini in umido, o di cotolette marinate all’asiatica. Con quella battaglia si concludeva la guerra del Generale. Non teneva in alcun conto la retroguardia, non dava credito al potere seduttivo dei dolci.

Come dessert accettava solo formaggi e frutta. Tutte le mie creme vellutate, i miei sorbetti alla frutta, le mie tortine croccanti, le mie delizie al cioccolato, i miei soffici parfaits, le mie crêpes leggere, le mie decorazioni di caramello, gli passavano sotto il naso, lasciandolo indifferente, cosa che a volte mi faceva imbestialire. Forse era per quello che non sopportavo Niehauser. Non apprezzava una parte importante del mio lavoro.

“Cosa devo fare con gli ospiti?” si lamentò improvvisamente Krüger ad alta voce.

“Glielo dico io.” Spielmann, su tutte le furie, fece irruzione nel ristorante attraverso la porta a vento della cucina. Aveva le guance in fiamme e gli occhi che scagliavano lampi. “Per oggi, disdica tutto. Si inventi una scusa! Le verrà senz’altro in mente qualcosa!”

“Dice sul serio, capo?” Krüger strabuzzò gli occhi.

“Ho ottenuto che tutti i campioni di cibo vengano analizzati in giornata,” proseguì Spielmann. “Naturalmente non troveranno nulla! Domani, senza dubbio, il Bue d’Oro sarà di nuovo aperto. È un vero peccato che non si possa fare nulla per risolvere questo pasticcio!”

Era evidente quanto sforzo gli costasse contenere la rabbia. Ma, contrariamente alle ultime settimane, era pieno di energie e di dinamismo, l’atmosfera di ostilità che aveva sempre diffuso nell’aria era come svanita.

“Nessuno vada a casa, la polizia vuole prima parlare con voi, uno per uno. Ho messo il mio ufficio a disposizione delle autorità perché non si debba andare in caserma. Prima ci lasciamo alle spalle l’interrogatorio, meglio è!”

***

L’uomo con lo spolverino unto si chiamava Fischer ed era a capo della Squadra speciale Bue, responsabile delle indagini sul caso Schwertfeger. Si era tolto lo spolverino e ora se ne stava dietro la scrivania di Spielmann con dei jeans a sigaretta aderentissimi, una t-shirt sporca e altrettanto attillata, tesa su un accenno di pancia in un corpo che per il resto era magro. Io lo superavo quasi di mezza testa in altezza.

 “Si sieda!” mi intimò.

Solo pochissimi uomini riescono a sopportare che una donna sia più alta di loro e Fischer non era tra questi.

“Nome, indirizzo e data di nascita,” recitò meccanicamente con tono di voce distaccato. Dopo aver sbrigato le formalità, si interessò del mio ruolo nella cucina di Spielmann.

Chef de partie garde-manger.

“Che in parole povere significa?”

“Responsabile degli antipasti e dei dessert.”

“Quindi ci sarà di certo anche il responsabile della carne.”

“Kraußler. È il nostro salsiere, quindi responsabile della carne e delle salse. Oltre a quello, insieme a Sandra Bäumer, fa anche da entremetier e si occupa di verdure, contorni, piatti a base di uova. Nel mio blocco lavorano anche un commis, un cuoco giovane, Holger Schädele, e un apprendista, Daniel Storck. Pfister è il nostro tournant, aiuta dove ce n’è bisogno, mentre Niehauser è il capocuoco.”

“E cosa cucina?”

“Poco, in realtà. Il capocuoco è responsabile degli acquisti, della contabilità, dell’organizzazione e via dicendo. Sgrava lo chef da un po’ di lavoro.”

“Quindi neanche lo chef cucina?”

“Non sa chi è Spielmann?” chiesi, irritata dal fatto che quel poliziotto partisse dal presupposto che un cuoco così conosciuto e famoso passasse le sue giornate in cucina. “Spielmann viaggia molto, scrive libri di ricette, è ospite di programmi di cucina, a volte non lo vediamo per una settimana intera.”

“E quando non è in giro, cosa fa esattamente?”

“Crea nuove ricette, sperimenta. Tutto quello che cuciniamo qui nasce da lui. Non succede spesso che stia in cucina con noi.”

“Aha.” Fischer prese svogliatamente qualche appunto.

Se avesse interrogato ciascuno di noi così a fondo sul suo lavoro, nella migliore delle ipotesi avrebbe impiegato fino a sera per farsi un’idea di una brigata di cucina.

 “Antipasti. Sa cosa abbia mangiato il morto?”

“Un soufflé di romice con salmone in camicia e zabaione al Riesling.”

“Come fa a esserne così sicura?”

“Quando il morto è stato portato in cucina, ho notato che aveva macchie di soufflé sui pantaloni.”

“Perché non ne è avanzato nemmeno un po’?”

“Il soufflé va preparato al momento e deve essere mangiato in fretta, altrimenti perde la sua consistenza.”

“Potrebbe ricucinare il piatto per il laboratorio?”

“Certo. Ma si affloscerà per strada.”

“Non ha importanza. Quello che conta sono gli ingredienti, il piatto può anche avere l’aspetto di un mucchio di merda di cane. Quando ha preparato quel coso al romice, sapeva che sarebbe stato per Schwertfeger?”

“No.”

“Non sa mai a chi viene servito il piatto che prepara?”

“Solitamente no. Ma può succedere che vengano fatti i nomi di clienti abituali o di ospiti illustri. Quando Fritz Pleitgen mangia qui, se è autunno gli viene servita una porzione extra di crema di marroni, perché gli piace molto. A Boris Becker, invece, riserviamo un piatto ricco di variazioni al cioccolato, perché ne va ghiotto. Ma, come ho detto, sono eccezioni.”

“Quindi potrebbe venire a sapere a quale ospite è destinato un piatto?”

“Intende, per esempio, la possibilità di avvelenare qualcuno nel caso ne avessi intenzione.”

“Perché pensa che lo chieda?” rispose Fischer impassibile.

“Non ne ho idea. Al passapiatti sono appesi i foglietti con le ordinazioni. Sopra è annotato solo il numero del tavolo, poi tutti gli antipasti, le portate principali e i dolci. Anche se sapessi a che tavolo è seduto un certo ospite, dal foglietto delle ordinazioni non riuscirei a capire cosa mangerà in particolare. E la cosa non mi interessa nemmeno.”

“Qui si tratta di un omicidio, non di cosa interessa a lei!” tuonò Fischer, poi fece il giro del tavolo e si piegò su di me.

Gli puzzava l’alito.

“Un omicidio per avvelenamento è una cosa programmata, non un gesto impulsivo e casuale. Nella maggior parte dei casi il veleno viene ingerito attraverso il cibo e qui ce n’è in abbondanza! Dunque, ci pensi bene! È possibile che in qualche modo il veleno possa essere arrivato dalla sua cucina al piatto di Schwertfeger?”

Girai la testa dall’altra parte per prendere una boccata d’aria. Fischer fece qualche passo indietro.

“L’ha detto lei stesso che si è trattato di un gesto programmato. In cucina nessuno sa a chi, a quale tavolo, vengano serviti i piatti. Quindi nessuno degli addetti alla cucina può averlo avvelenato!”

“Bene, formuliamo diversamente la domanda.”

Fischer iniziò a passeggiare su e giù per la stanzetta, mi aspettavo che inciampasse nei roller di Spielmann, ma non lo fece.

“Cominciamo da capo. Chi prende le ordinazioni?”

“Krüger, il capocameriere.”

“E di cosa si occupano gli altri due camerieri?”

“Quelli sono apprendisti, non possono ancora prendere le ordinazioni.”

“Ma possono venire a sapere cosa viene ordinato?”

“Penso di sì, lo chieda a Krüger.”

“Poi Krüger viene in cucina con le ordinazioni e a chi le consegna?”

“A Niehauser. Niehauser ci legge ad alta voce le ordinazioni, così sappiamo cosa c’è da fare, poi appende i fogli in bacheca, al passapiatti.”

“Passapiatti?”

“È il tavolo lungo tra la cucina e il ristorante, sul quale vengono appoggiati i piatti che poi i camerieri servono in sala.”

“Krüger e Niehauser parlano dei clienti?”

“Può succedere, ma non è di certo la norma. Non c’è proprio il tempo per farlo. Quando c’è il pienone, nessuno ha tempo di chiacchierare.”

“Ma ogni cuoco potrebbe fare una puntatina nel ristorante senza che la cosa dia nell’occhio?”

“Ma cosa va a pensare! Nessun cuoco accede al ristorante, se non su esplicita richiesta di qualche cliente che voglia lamentarsi o complimentarsi con lui di persona. Due eventualità che però capitano molto raramente.”

“In nessun altro caso?”

 Ci pensai su.