Sommario

CHARLES BAUDELAIRE

I FIORI DEL MALE

CON LA PREFAZIONE
DI

T. GAUTIER
E L'AGGIUNTA DI STUDI CRITICI
DI

SAINT-BEUVE, C. ASSELINÉAU,
B. D'AUREVILLY, E. DESCHAMPS, ECC.

PRIMA TRADUZIONE ITALIANA IN PROSA
DI

RICCARDO SONZOGNO


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Mauro Liistro Editore

© 2017 Some Righits Reserved

 

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eISBN:978-3961647873

 

A Edoardo Sonzogno.

A te, zio mio, per l'affetto padre, offro riconoscente questa modesta prova di lavoro; e – certo che nell'intelligente bontà dell'animo tuo saprai perdonare la povertà del tentativo – dirò a te le poche parole che avrei voluto rivolgere al lettore.

Delle opere e della vita di C. Baudelaire parlano diffusamente: Teofilo Gautier nella Prefazione ai Fiori del male, ricordando in quello studio critico l'originalità della concezione e l'inestimabile pregio – per lungo tempo disconosciuto – di quel capolavoro; Sainte-Beuve, di Custine, Deschamps, in lettere inviate a Baudelaire; Barbey d'Aurevilly, ed Asselinau in altri studi critici, che – seguendo l'esempio dell'autore – raccolsi in appendice.

Il mio compito si limita a quello modesto del traduttore in prosa. Non pensai neppure ad una traduzione ritmica che oggi ancora – a lavoro compiuto – ritengo impossibile. Certo si potrebbe recare in versi qualcuna delle composizioni meno caratteristiche, ma – pur disperando di raggiungere la perfezione dell'originale – il numero ne sarebbe troppo esiguo. Nessuno potrà né dovrà – a mio avviso – tentare la traduzione in poesia dell'opera completa.

Chi mai saprebbe rendere la fluidità e la sonorità del verso, la realtà selvaggia e la ferocia magistrale delle espressioni, l'intensità, l'originalità e la freschezza delle concezioni, costringendo le imagini e le parole nel verso? Se un ingegno superiore vi si attentasse – pur riuscendo a darci una buona traduzione – forse verrebbe di molto scemata la personalità squisita di quel temperamento d'artista originale ed esuberante; certo non potrebbe conservare quella sapiente struttura architettonica – che ricorda Dante e il divino poema – per la quale tutte le poesie, singolarmente perfette, concorrono alla perfezione ultima, con una mirabile unità di concetto e di forma. Una sola lieve dissonanza diventerebbe un'atroce stonatura, guastandone la complessa armonia; e l'opera d'arte – incantevole arco di meraviglie – cadrebbe in rovina.

Ecco perché la mia traduzione è in prosa. E neppur questa mi salvò dall'incontrare grandi difficoltà. Ho conservato l'asprezza e la crudezza della frase, nulla aggiungendo e nulla togliendo, attenendomi coscienziosamente all'originale, e presento alla critica un lavoro scrupolosamente accurato, senza la pretesa della perfezione.

E la soddisfazione dell'opera mia sarebbe completa, se potessi, nell'Italia nostra, contribuire col povero ingegno mio al movimento di riparazione – già iniziato in Francia da qualche anno ed ora quasi compiuto – verso la pallida ombra del poeta che ebbe una vita tanto agitata, per avere fedelmente seguito quello che egli – con la triste rassegnazione degli esseri d'intelletto, delle anime malate d'infinito e assetate d'ideale – chiamava il suo doloroso programma.

Milano, settembre 1893.

Riccardo.

CHARLES BAUDELAIRE

La prima volta che incontrammo Baudelaire fu verso la metà del 1849, all'Hôtel Pimodan, dove occupavamo, vicino a Fernando Boissard, un appartamento fantastico, che comunicava col suo per mezzo di una scala appartata nascosta nella profondità del muro, e nel quale dovevano aleggiare le ombre delle belle dame amate un tempo da Lauzun.

Colà abitava pure la superba Maryx che, giovanissima ancora, servì da modello per la Mignon di Scheffer, e, più tardi, per La gloria che distribuisce corone, di Paolo Delaroche, e quell'altra bellezza, allora in tutto il suo splendore, dalla quale Clésinger trasse La Donna del serpente, quel marmo nel quale il dolore rassomiglia al parossismo del piacere e che palpita con una intensità di vita che lo scalpello non aveva mai conseguita e che non verrà mai superata.

Charles Baudelaire era ancora un talento sconosciuto, che nell'ombra si preparava alla luce, con quella volontà tenace che in lui raddoppiava l'inspirazione; ma il suo nome cominciava già a diffondersi fra i poeti e gli artisti, con un fremito d'aspettativa, e la giovane generazione, che succedeva alla grande generazione del 1830, pareva contasse molto su di lui. Nel misterioso cenacolo, dove si delineano le riputazioni dell'avvenire, era ritenuto il più forte. Avevamo spesso udito parlare di lui, ma non conoscevamo nessuna delle sue opere.

Il suo aspetto ci colpì: egli aveva i capelli cortissimi e del più bel nero; e quei capelli, che facevano delle punte regolari sulla fronte d'una smagliante bianchezza, lo adornavano come di un casco saraceno; gli occhi, color tabacco di Spagna, avevano uno sguardo spirituale, profondo e di una penetrazione forse troppo insistente; la bocca poi, adorna di denti bianchissimi, nascondeva, sotto i baffi leggieri e morbidi che ne ombreggiavano il contorno, alcune sinuosità mobili, voluttuose ed ironiche come le labbra delle figure dipinte da Leonardo da Vinci; il naso, fine e delicato, un po' arrotondato, dalle nari palpitanti, pareva fiutasse vaghi profumi lontani; una fossetta pronunciata accentuava il mento come l'ultimo colpo di pollice dello statuario; le guance, accuratamente rase, contrastavano, per la tinta bluastra vellutata dalla polvere di riso, col colorito vermiglio degli zigomi; il collo, d'una eleganza e di una bianchezza femminea, usciva snello dal colletto arrovesciato della camicia e da una stretta cravatta di madras delle Indie a quadretti.

Il suo vestito si componeva di un soprabito di stoffa nera e lucente, di calzoni color nocciuola, di calze bianche e di scarpe verniciate, il tutto meticolosamente lindo e corretto, con una cert'aria studiata di semplicità inglese e quasi col proposito di allontanarsi dalla maniera degli artisti dal cappello a cencio, dagli abiti di velluto, dai camiciotti rossi, dalla barba incolta e dalla capigliatura scarmigliata. Nulla di troppo nuovo o di troppo appariscente in quel severo abbigliamento.

Charles Baudelaire apparteneva a quel dandysme sobrio che raschia i proprî abiti colla carta smerigliata per toglier loro quel lucido festivo od affatto nuovo tanto caro al bottegajo e tanto ingrato al vero gentiluomo. In seguito, anzi, si tolse anche i baffi, trovando ch'era un resto di antica eleganza pittoresca che gli sembrava puerile e triviale conservare. Spoglia in tal modo d'ogni pelo superfluo, la sua testa ricordava quella di Lorenzo Sterne, somiglianza accresciuta dall'abitudine che aveva Baudelaire d'appoggiare, quando parlava, l'indice alla tempia; e questa è, come si sa, la posa del ritratto dell'umorista inglese, posto in principio delle sue opere.

Tale è l'impressione fisica che in quel primo incontro lasciò in noi il futuro autore dei Fiori del male.

Nei Nuovi Camei Parigini, di Teodoro di Banville, uno dei più cari e costanti amici del poeta di cui rimpiangiamo la perdita, noi troviamo questo ritratto di gioventù e, diremo così, avanti lettera. Ci sia permesso di qui trascrivere quelle linee di prosa uguali in perfezione, ai più bei versi; esse danno di Baudelaire una fisionomia poco nota e presto cancellata che là soltanto esiste: «Un ritratto dipinto da Emilio Deroy, e che è uno dei pochi capolavori compiuti dalla pittura moderna, ci mostra Charles Baudelaire a vent'anni, nel momento in cui, ricco, felice, amato, già celebre, scriveva i suoi primi versi, acclamati da quella Parigi che detta leggi a tutto il resto del mondo! O esempio raro d'un viso veramente divino, che riunisce tutte le fortune, tutte le forze e le seduzioni più irresistibili!

«Le sopracciglia sono pure, allungate e coprono dolcemente la sua palpebra orientale, calda, vivamente colorita; l'occhio nero, profondo, pieno di fuoco, carezzevole ed imperioso, guarda, scruta, interroga e riflette tutto ciò che lo circonda; il naso, grazioso, ironico, dai tratti accentuati e dall'estremità un po' arrotondita e pronunciata, fa subito pensare alla celebre frase del poeta: La mia anima si libra sui profumi, come quella degli altri uomini sulla Musica! La bocca è arcuata, già affinata dallo spirito, ma ancora porporina e ricorda lo splendore dei frutti. Il mento è rotondo, ma di un rilievo forte, potente come quello di Balzac. Tutto quel volto è di un pallore caldo, bruno, sotto il quale traspaiono i toni rosei di un sangue generoso e bello; una barba giovanile, ideale, di giovine Iddio, adorna quel pallore; la fronte alta, vasta, disegnata energicamente, è ornata da una nera e folta capigliatura ondeggiante e inanellata, che, come quella di Paganini, ricade sopra un collo da Achille o da Antinoo!»

Non bisognerebbe accettare questo ritratto tal quale, perché veduto attraverso il prisma della pittura e della poesia, e abbellito da una doppia idealizzazione; ma non è per questo meno sincero e non fu meno esatto a suo tempo. Charles Baudelaire ha avuto il suo momento di suprema bellezza, e lo constatiamo giusta questa testimonianza fedele. È raro che un poeta, un artista, sia conosciuto sotto il suo primo e piacevole aspetto. La celebrità non giunge che più tardi, quando già le fatiche dello studio, la lotta della vita e le torture delle passioni hanno alterata la fisionomia primitiva e non rimane di lui che una maschera avvizzita, sulla quale il dolore ha stampato le sue impronte e tracciate le sue rughe. È quest'ultima imagine, che ha anch'essa la sua bellezza, quella che si ricorda. Tale è stato, giovanissimo, Alfredo di Musset. Lo si sarebbe detto Febo o Apollo in persona colla sua bionda capigliatura, e il medaglione di David ce lo raffigura quasi sotto l'aspetto di un dio. A quella singolarità che sembrava rifuggire da ogni affettazione si mesceva una certa fragranza esotica e come un lontano profumo delle terre più amate dal sole. Ci fu detto che Baudelaire aveva viaggiato per molto tempo nell'India, e tutto fu spiegato.

Contrariamente ai costumi un poco liberi degli artisti, Baudelaire teneva all'osservanza delle più rigide convenienze, e la sua cortesia era eccessiva fino a sembrare manierata. Misurava le frasi, non adoperava che i più scelti vocaboli e diceva certe parole con un tono particolare, come se avesse voluto sottolinearle, e dar loro una misteriosa importanza. Aveva nella voce delle «italiche e maiuscole iniziali». La caricatura, tenuta in onore nell'Hôtel Pimodan, egli la sdegnava, ma si permetteva il paradosso e la frase spinta. Semplicemente, con tutta naturalezza, come se avesse pronunciato una banalità alla Prudhomme sulla mitezza o sul rigore della temperatura, egli avventava qualche assioma satanicamente mostruoso, o sosteneva, a sangue freddo, qualche teoria di una stravaganza matematica, perché aveva un metodo rigoroso sullo svolgimento delle sue follìe. Il suo spirito non si manifestava né coi motti, né colle frasi ad effetto, ma intravedeva le cose da un punto di vista speciale, che alterava le linee, come quelle degli oggetti guardati a volo d'uccello o in un soffitto, e afferrava dei nessi inapprezzabili per gli altri, la bizzarra logica dei quali vi colpiva. I gesti erano lenti, rari, sobri, misurati, come raccolti, poiché aveva l'orrore del gestire dei meridionali. Non gli piaceva neppure la volubilità della parola, e la flemma britannica gli pareva di buon genere. Si può dire di lui che era un dandy perduto fra la bohème, ma conservandosi il suo grado, il suo fare e quel culto di se stesso che caratterizza l'uomo imbevuto dei principî di Brummel.

Tale ci apparve in quel primo incontro, il cui ricordo ci par di ieri, e potremmo disegnare a memoria il quadro.

Eravamo in quel gran salone del più puro stile Luigi XIV, coll'intavolato a dorature brunite, dal cornicione artistico sul quale qualche allievo di Lessueur o di Poussin aveva dipinto delle ninfe inseguite da satiri attraverso i canneti, secondo il gusto dell'epoca. Sul vasto camino di marmo dei Pirenei color dell'agata, chiazzato di bianco e di rosso, sorgeva, a mo' di pendola, un elefante dorato e bardato come l'elefante di Poro nella battaglia di Lebrun, che portava sul dorso una torre da guerra, sulla quale stava un quadrante smaltato, colle cifre azzurre. Divani e poltrone erano antichi, coperti di stoffe dai colori smunti, rappresentanti soggetti di caccia dipinti da Oudry o Desportes. È in quel salone che si tennero le sedute del club degli haschischins (mangiatori di haschisch), del quale facevamo parte e che abbiamo descritte altrove, colle loro estasi, i loro sogni e le loro allucinazioni, seguite da così profondi abbattimenti.

Come già dicemmo, il padrone di casa era Fernando Boissard, i cui capelli biondi, corti e ricciuti, il volto bianco e vermiglio, l'occhio grigio scintillante di spirito, le labbra rosse e i denti di perla sembravano affermare un'esuberanza di vita e di salute alla Rubens e promettere una lunga esistenza. Ma ahimè! chi può leggere nel destino? Boissard, a cui non mancava nulla per essere felice, e che non aveva neppure conosciuto la spensierata miseria dei figli di famiglia, si è spento, son già parecchi anni, dopo avere per lungo tempo sopravvissuto a se stesso, di una malattia analoga a quella di cui è morto Baudelaire. Boissard era un giovane che aveva le migliori qualità, l'intelligenza più viva; comprendeva tanto la pittura quanto la poesia e la musica, ma forse in lui il dilettante nuoceva all'artista e l'ammirazione gli rubava troppo tempo: si esauriva in entusiasmi.

Nessun dubbio che, se la ferrea necessità lo avesse costretto, sarebbe riuscito un pittore eccellente.

Il successo che ottenne al Salone il suo Episodio della ritirata di Russia ce ne sta garante in modo indubbio. Ma, senza abbandonare la pittura, si lasciò distrarre da altre forme d'arte: egli suonava il violino, organizzava dei quartetti, decifrava Bach, Beethoven, Meyerbeer e Mendelssohn, studiava le lingue, scriveva della critica e faceva bellissimi sonetti. Era un gran voluttuoso in fatto d'arte, e nessuno più di lui si è beato nell'ammirazione dei capolavori con maggiore raffinatezza di passione e di sensualità; a forza d'ammirare il bello, si dimenticava d'esprimerlo, e gli sembrava d'aver reso quando aveva profondamente sentito. La sua conversazione era attraente, piena di festività e di sorprese; egli aveva, rara dote, la trovata del motto e della frase, e, quando parlava, ogni sorta d'espressioni gradevolmente bizzarre, dai concetti italiani alle agudezzas spagnuole, passava dinanzi ai vostri occhi, come fantastiche figure di Callot in atteggiamenti graziosi e piacevoli.

Al par di Baudelaire, amante delle sensazioni squisite, fossero pure pericolose, volle conoscere quei paradisi artificiali che, più tardi, vi fanno pagare a caro prezzo le loro estasi fallaci, e l'abuso dell'haschisch ha senza dubbio guastato quella salute sì robusta e fiorente. Questo ricordo di un amico della nostra giovinezza, col quale abbiamo vissuto sotto il medesimo tetto, d'un romantico di buona lega dimenticato dalla gloria, perché amava troppo quella degli altri per pensare alla sua, non sarà fuor di posto in questo scritto, destinato a servir di prefazione alle opere complete d'un morto, amico ad entrambi.

Nel giorno di quella visita c'era anche Giovanni Feuchères, lo scultore della razza dei Giovanni Goujon, dei Germano Pilon, e dei Benvenuto Cellini, i cui lavori, pieni di gusto, d'invenzione e di grazia, sono scomparsi quasi tutti, accaparrati dall'industria e dal commercio, e fatti passare, e ben lo meritavano, sotto i nomi più illustri per essere venduti a più caro prezzo ai ricchi amatori, che realmente non restavano truffati. Oltre al suo talento di scultore, Feuchères possedeva uno spirito straordinario d'imitazione, e nessun attore sapeva incarnare un tipo al par di lui.

Egli è l'inventore di quei comici dialoghi del sergente Bridais e del fuciliere Pitou, il cui repertorio s'è prodigiosamente accresciuto e che provocano ancora ai giorni nostri un riso irresistibile. Feuchères è morto pel primo, e, dei quattro artisti riuniti allora nel salone dell'Hôtel Pimodan, io solo sopravvivo.

Sul canapè, quasi coricata e col gomito appoggiato a un cuscino, in una immobilità di cui aveva contratto l'abitudine nella pratica della posa, Maryx, con una veste bianca bizzarramente costellata di bioccolini rossi, simili a goccie di sangue, ascoltava distratta i paradossi di Baudelaire, senza lasciar trapelare la minima sorpresa sul suo volto del più puro tipo orientale, mentre faceva passare gli anelli dalla mano sinistra nei diti della destra, mani perfette come il suo corpo, di cui il modello ha conservato la bellezza.

Presso la finestra, la donna dal serpente (non è conveniente darle qui il vero suo nome) dopo aver gettato su di una poltrona il suo mantello di pizzo nero, e il più delizioso cappellino verde che mai abbia raffazzonato Lucy Hoquet o M.me Baudrand, scuoteva i suoi bei capelli d'un bruno fulvo ancor umido, perché ella veniva dalla scuola di nuoto, e da tutta la sua persona adorna di mussolina esalava, come da una naiade, il fresco profumo del bagno. Con l'occhio e col sorriso ella incoraggiava quel torneo di parole e lanciava di quando in quando il suo motto, beffando ed approvando a vicenda, e la lotta ricominciava più animata.

Sono passate quelle ore felici di ozio, nelle quali dei decameroni di poeti, di artisti e di vaghe donne si riunivano per parlare d'arte, di letteratura e di amore, come ai tempi del Boccaccio. Il tempo, la morte, le imperiose necessità della vita, hanno disperso quei gruppi di libere simpatie, ma ne rimane caro il ricordo in quanti ebbero la fortuna di esservi ammessi, ed è con un involontario senso di tenerezza che scriviamo queste righe.

Poco tempo dopo quell'incontro, Baudelaire venne a trovarci portandoci un volume di versi da parte di due amici assenti. Egli stesso ha raccontano quella visita, in una nota letteraria che fece su di noi, in termini così pieni di rispettosa ammirazione, che non oseremmo trascriverli. Da quel giorno nacque fra noi un'amicizia nella quale Baudelaire volle sempre serbare l'attitudine di un discepolo preferito accanto ad un maestro simpatico, quantunque non dovesse l'ingegno che a se stesso e alla sua originalità. Mai, neppure in mezzo alla più grande familiarità, egli venne meno a quella deferenza che giudicammo eccessiva e dalla quale l'avremmo volentieri dispensato. Egli l'attestò altamente e parecchie volte, e la dedica dei Fiori dei Male, che ci è indirizzata, consacra nella sua forma lapidaria l'espressione assoluta di questo sentimento amichevole e poetico.

Se insistiamo su questi particolari non è per noi, ma perché ritraggono un aspetto non conosciuto di Baudelaire. Questo poeta che si tentò di far credere una natura satanica, innamorata del male e della depravazione (letterariamente, s'intende) sentiva al più alto grado l'amore e l'ammirazione. Ora, ciò che distingue Satana è che non può né ammirare, né amare. La luce lo ferisce e la gloria è per lui uno spettacolo insopportabile che lo costringe a velarsi gli occhi colle sue ali di pipistrello. Nessuno, neppure ai tempi più caldi del romanticismo, ebbe più di Baudelaire il rispetto e l'ammirazione dei maestri. Sempre egli era pronto ad arder loro l'incenso che meritavano, e ciò senza ombra di servilità, senza fanatismo di seguace, poiché era egli stesso un padrone che aveva il suo regno, il suo popolo e che batteva moneta al suo conio.

Sarebbe forse opportuno, dopo aver dato due ritratti di Baudelaire in tutto lo splendore della giovinezza e nella pienezza delle sue forze, rappresentarlo quale è stato negli ultimi anni della sua vita, prima che il male avesse steso la mano su lui e suggellato quelle labbra che non dovevano più parlare quaggiù. Il suo volto era dimagrato e come spiritualizzato, gli occhi parevano più grandi, il naso era più fine, e le labbra chiuse misteriosamente sembrava custodissero sarcastici misteri. Sulle gote, al vermiglio d'un tempo si mescevano dei toni gialli, come di sole o di stanchezza. La fronte, un po' sguernita di capelli, sembrava più vasta e più solida; pareva tagliata nel marmo. Dei capelli setosi, lunghi, finissimi, già più rari e quasi tutti bianchi incorniciavano quel volto invecchiato e pur giovine, e gli davano un aspetto quasi sacerdotale.

Charles Baudelaire è nato a Parigi il 21 aprile 1821, via Hautefeuille, in una di quelle vecchie case che portavano agli angoli una torricella a guisa di specola, che un'edilizia troppo amante della linea retta e delle larghe vie, ha certo fatto sparire. Era figlio del signor Baudelaire, vecchio amico di Condorcet e di Cabanis, uomo distintissimo, assai istruito e che conservava quella squisita cortesia di modi del diciottesimo secolo, che i costumi rozzi e pretensiosi dell'èra repubblicana non avevano cancellati quanto si crede. Questa qualità rimase al poeta, che conservò sempre modi di una urbanità squisita. Non appare che nei primi anni Baudelaire sia stato un fanciullo miracolo ed abbia colto molti allori negli esami al collegio. Stentatamente, anzi, superò gli esami di dottore in lettere e fu ricevuto quasi per grazia. Sopraffatto senza dubbio da domande imprevedute, quel giovine, d'uno spirito così arguto e d'una così reale cultura, parve quasi un idiota. Non abbiamo affatto l'intenzione di fare di quell'apparente inettezza un brevetto di capacità. Si può ottenere un primo premio e avere molto ingegno. In questo fatto non bisogna scorgere che l'incertezza dei pronostici che si vorrebbero trarre dalle prove accademiche. Nello scolaro, spesso distratto e pigro, o forse occupato d'altro, a poco a poco si va formando l'uomo reale, invisibile pei parenti e pei professori. Il signor Baudelaire venne a morire, e sua moglie, la madre di Charles, si rimaritò col generale Aupick, che fu poi ambasciatore a Costantinopoli. Ben presto sorsero dissensi in famiglia per la vocazione precoce che dimostrava il giovane Baudelaire per le lettere. Quei timori, che provano i genitori allorchè il gusto funesto della poesia si manifesta nei loro figli, sono pur troppo legittimi; ed è a torto, secondo noi, che nelle biografie dei poeti si rimprovera ai padri ed alle madri d'essere inintelligenti e prosaici. Hanno ragione. A quale esistenza triste, precaria e miserabile, e non parliamo delle difficoltà economiche, si consacra quegli che si getta nella via dolorosa che si chiama la carriera delle lettere! Esso può da quel giorno considerarsi come cancellato dal novero degli umani: l'azione si arresta per lui; non vive più, è come spettatore della vita. Ogni sensazione è per lui un motivo di analisi. Involontariamente si sdoppia, e in mancanza d'altro soggetto, diventa la spia di se stesso. Se gli manca il cadavere, si stende sulla lastra di marmo nero e, per un prodigio frequente in letteratura, caccia lo scalpello nel proprio cuore. E che lotta accanita coll'Idea, questo Proteo inafferrabile che assume tutte le forme per sfuggire alla vostra stretta e che non rivela il suo oracolo se non quando lo si è costretto a mostrarsi sotto il suo vero aspetto!

Quell'Idea, quando spaurita e palpitante ci sta sotto al ginocchio che l'ha vinta, bisogna rialzarla e coprirla colla veste dello stile, così difficile a tessere, a tingere, a disporre in pieghe severe o leggiadre. In quel lavoro, che dura a lungo, i nervi si eccitano, il cervello s'infiamma, la sensibilità si esalta; e giunge la nevrosi colle sue inquietudini bizzarre, le sue insonnie piene di allucinazioni, le sofferenza indefinibili, i capricci morbosi, le depravazioni fantastiche, le ammirazioni e le ripugnanze senza motivo, le pazze energie e le prostrazioni snervanti, la ricerca di eccitanti e l'avversione per qualunque sano nutrimento. Non esageriamo le tinte; più di una morte recente ne garantisce l'esattezza. E parliamo soltanto dei poeti che hanno ingegno, visitati dalla gloria e che almeno sono caduti in seno al loro ideale. Che avverrebbe se scendessimo in quei limbi nei quali vagiscono, colle ombre degli infanti, le vocazioni nate morte, i tentativi falliti, le larve d'idee, che non trovano né ali, né forme, perché il desiderio non è potenza, l'amore non è possesso! ... La fede non basta: ci vuole il talento. In letteratura, come in teologia, le opere non sono nulla senza la Grazia.

Benchè non sospettino quell'inferno di angoscie, poiché per conoscerlo bene bisogna essere discesi per quelle spire sotto la guida, non di un Virgilio o di un Dante, ma di un Lousteau, di un Luciano di Rubempré e di qualunque altro giornalista di Balzac, i genitori presentono istintivamente i pericoli e i dolori della vita letteraria od artistica e cercano d'allontanarne i figli che amano e ai quali desiderano nella vita una posizione umanamente felice. Una volta sola, dacché la terra gira intorno al sole, vi furono un padre ed una madre che desiderarono ardentemente di avere un figlio per consacrarlo alla poesia. A quel fanciullo fu a tale scopo impartita l'educazione letteraria più brillante, e, per un'enorme ironia del destino, diventò Chapelain, l'autore della Pulzella!

Era, lo si ammetterà, aver proprio disgrazia!

Per dare un altro indirizzo alle sue idee nelle quali si ostinava, lo si fece viaggiare. Fu mandato assai lontano. Imbarcato sopra un vascello e raccomandato al capitano, percorse i mari dell'India, vide l'isola Maurizio, l'isola Borbone, Madagascar, forse Ceylan, alcuni punti della penisola del Gange, ma non rinunziò affatto al disegno d'essere un letterato. Invano si tentò d'interessarlo al commercio; la vendita della sua paccotiglia gli dava poco pensiero. Un traffico di buoi, per nutrire di beefsteacks gli inglesi dell'India, non gli sorrise maggiormente, e di quel viaggio di lungo corso non riportò che un ricordo abbagliante che durò per tutta la sua vita. Ammirò quel cielo nel quale scintillano costellazioni sconosciute in Europa, quella magnifica e gigantesca vegetazione dai profumi penetranti, quelle pagode eleganti e bizzarre, quelle faccie brune e quei lunghi paludamenti bianchi, tutta quella natura esotica, così calda, così potente, così piena di colore, e ne' suoi versi frequenti ricordi lo riconducono, dalle nebbie e dal fango di Parigi, verso quelle contrade di luce, di azzurro e di profumi. In fondo alla pagina più sobria spesso si schiude uno spiraglio dal quale, invece di neri fumajuoli e di tetti grigi, si scorge il mare azzurro dell'India o qualche spiaggia dalle sabbie d'oro percorsa lievemente da una malabarese mezzo ignuda con un'anfora sul capo. Senza voler penetrare più che non sia lecito nella vita del poeta, si può supporre che fu durante quel viaggio ch'egli fu colto da quell'amore per la Venere nera, per la quale ebbe sempre un culto.

Quando fu di ritorno da queste lontane peregrinazioni l'ora della sua maggiore età era suonata; non v'era più ragione – neppure pecuniaria, poiché era ricco, per qualche tempo almeno – d'opporsi alla sua vocazione. Si era affermato colla resistenza agli ostacoli, e nulla l'aveva potuto distrarre dal suo scopo. Alloggiato in un piccolo appartamento, sotto i tetti di quel medesimo Hôtel Pimodan nel quale lo incontrammo poi, come abbiamo già raccontato, egli incominciò quella vita di lavoro interrotto e ripigliato senza posa, di studî disparati e di ozio fecondo, che è quella di ogni letterato che cerca la sua via. Baudelaire la trovò presto. Scorse, non di qua, ma di là del romanticismo, una terra inesplorata, una specie di Kamciatka aspro e selvaggio, ed è al suo più estremo limite che si edificò, come dice Sainte-Beuve che lo teneva in gran pregio, un chiosco, o piuttosto una yourte di un'architettura bizzarra.

Parecchie fra le poesie che si leggono nei Fiori del male erano già scritte. Baudelaire, come tutti i poeti nati, ebbe fin da principio una forma propria e fu padrone del suo stile, che accentuò e rese più terso in seguito, ma nel medesimo senso. Baudelaire fu spesso accusato di essere studiosamente bizzarro, originale per posa e a qualunque costo, e sopratutto fu tacciato di manierismo. È questo un punto sul quale è bene soffermarci prima di andare più oltre. Vi hanno di quelli che sono naturalmente manierati. La semplicità sarebbe in essi una pura affettazione e come una specie di manierismo in senso opposto. Essi dovrebbero cercare a lungo e lavorar molto per essere semplici. Le circonvoluzioni del loro cervello si ripiegano in guisa che le idee vi si contorcono, s'intrecciarlo e prendono la forma di spirale invece di seguire la linea retta. I pensieri più complessi, più sottili, più intensi sono quelli che si affacciano ad essi pei primi. Essi scorgono le cose sotto un angolo speciale, che ne modifica l'aspetto e la prospettiva. Di tutte le imagini, le più bizzarre, le più insolite, le più fantasticamente lontane dal soggetto trattato, sono quelle che più specialmente li colpiscono, e sanno unirle alla trama del loro pensiero con un filo misterioso, subito ritrovato. Lo spirito di Baudelaire era fatto così, e dove la critica ha voluto vedere il lavoro, lo sforzo, l'esagerazione e il parossismo del sistema, non v'era che il libero e spontaneo manifestarsi di una individualità. Quelle pagine di versi, di un sapore così squisitamente strano, chiusi in fiale così ben cesellate, non gli costarono più che ad un altro un luogo comune con una cattiva rima.

Baudelaire, pure avendo pei grandi maestri passati l'ammirazione che meritano storicamente, non credeva che si dovessero scegliere a modelli: ad essi era toccata la fortuna di giungere alla gioventù del mondo, all'alba, per così dire, dell'umanità, quando nulla ancora era stato espresso, ed ogni forma, ogni imagine, ogni sentimento aveva come un fascino di novità verginale. I grandi luoghi comuni che costituiscono il fondo del pensiero umano erano allora in tutto il loro fiore, e bastavano a persone semplici che parlavano ad un popolo bambino. Ma, a forza d'essere ripetuti, quei temi di poesia si erano logorati come le monete che circolano troppo e perdono la loro impronta; e d'altra parte la vita, fatta più complessa, più ricca di nozioni e d'idee, non era più rappresentata da quelle composizioni artificiali, fatte secondo lo spirito d'un altro tempo. Quanto attrae la vera innocenza, altrettanto v'irrita e vi disgusta la furberia che finge di non sapere.

La qualità del XIX secolo non è precisamente l'ingenuità, ed esso ha bisogno, per esprimere il suo pensiero, i suoi sogni e i suoi postulati di un idioma un po' più complesso della lingua detta classica. La letteratura è come la giornata: essa ha il mattino, il meriggio, la sera e la notte. Senza discutere inutilmente per sapere se sia preferibile l'aurora al crepuscolo, bisogna dipingere nell'ora in cui ci si trova, con una tavolozza che abbia tutti i colori richiesti per rendere gli effetti di quell'ora. Il tramonto non ha forse le sue bellezze, come le ha il mattino? Quel rosso di rame, quell'oro verde, quelle tinte di turchesi che si fondono col zaffiro, che ardono e si scompongono nel grande incendio finale, quelle nubi dalle strane forme, mostruose, penetrate da getti di luce e che sembrano la catastrofe gigantesca di una Babele aerea, non offrono forse tanta poesia come l'aurora dalle dita di rosa, che certo non disprezziamo? È da tanto tempo che le Ore che precedono il carro del Giorno, nel soffitto di Guido, sono volate via!

Il poeta dei Fiori del male amava quello che si chiama impropriamente lo stile della decadenza, e che non è altro se non l'arte pervenuta a quel punto di estrema maturità cui volgono, prossime al tramonto, le civiltà che invecchiano: stile ingegnoso, complicato, sapiente, pieno di gradazioni e di ricercatezze, estendente sempre i limiti della lingua, che prende qualche cosa a tutti i vocabolarî tecnici, colori a tutte le tavolozze, note a tutti i tasti, sforzandosi ad esprimere l'idea in quello che ha di più ineffabile, e la forma ne' suoi contorni più vaghi e fuggevoli, ascoltando, per tradurle, le confidenze sottili della nevrosi, le confessioni della passione che, invecchiando, si deprava, e le strane allucinazioni dell'idea fissa, che volge alla follia.

Questo stile di decadenza è l'ultima parola del Verbo che tutto deve esprimere e spinto all'ultimo limite.

A proposito di Baudelaire si può ricordare la lingua già striata dalle chiazze verdognole della decomposizione e come infrollita del basso impero romano, e le raffinatezze complicate della scuola bisantina, ultima forma dell'arte greca caduta in deliquescenza; ma è l'idioma necessario e fatale dei popoli e delle civiltà nei quali la vita fittizia si è sostituita alla vita naturale ed ha sviluppato nell'uomo bisogni sconosciuti. Del resto non è cosa facile questo stile disprezzato dai pedanti, poiché esprime idee nuove con nuove forme e con parole che ancora non furono udite. All'opposto dello stile classico, ammette l'ombra, e in quell'ombra si agitano confuse le larve delle superstizioni, i torvi fantasmi dell'insonnia, i terrori notturni, i rimorsi che trasaliscono e guardano indietro al più piccolo rumore, i sogni mostruosi, le fantasie oscure delle quali il giorno si stupirebbe, e tutto ciò che l'anima in fondo al suo più profondo ed ultimo recinto accoglie di tenebroso, di difforme e di vagamente orribile.

Dopo ciò si capisce bene che le millequattrocento parole del dialetto di Racine non bastino all'autore che si è imposto l'arduo compito di esprimere le idee e le cose moderne nel loro infinito complesso e nei loro molteplici colori. Così Baudelaire che, malgrado i suoi pochi successi agli esami, era un buon latinista, preferiva certamente a Virgilio e a Cicerone, Apulejo, Petronio, Giovenale, sant'Agostino e Tertulliano, il cui stile ha il nero splendore dell'ebano. Giungeva fino al latino chiesastico, a quelle prose e a quegli inni in cui la rima rappresenta l'antico ritmo obliato, e ha indirizzato sotto questo titolo: Franciscæ meæ Laudes, «ad una modista erudita e devota» (questi sono i termini della dedica), una composizione latina con rime, in quella forma che Brizeux chiama ternaria, e che consta di tre rime che si seguono invece d'intrecciarsi alternamente come nella terzina dantesca. A questo scritto bizzarro va unita una nota non meno singolare, che qui trascriviamo perchè spiega, corrobora quello che abbiamo detto sugl'idiomi della decadenza: